Corso di Geologia

Argomento: TETTONICA GLOBALE


INDICE


07 - GLI STRUMENTI DELLA TETTONICA REGIONALE



07.1 - MEGASUTURE E BACINI SEDIMENTARI

Assetto tettonico Globale

La carta tettonica del mondo mostra un assetto strutturale molto semplificato della superficie della Terra basato su quattro elementi fondamentali.

·        Oceani che sono il prodotto dell’espansione della crosta oceanica e della relativa distensione meso-cenozoica;

·        Aree di megasutura meso-cenozoica  che costituiscono fasce di compressione contemporanee alla formazione degli oceani;

·        Zone orogeniche paleozoiche  che rappresentano le megasuture paleozoiche oggi confinanti con crosta continentale e con zone di subduzione A. Una zona di subduzione B paleozoica può essere soltanto supposta, poiché non si è conservata crosta oceanica paleozoica con i suoi originari caratteri non deformati. Sulla mancanza di crosta oceanica possono essere suggerite due spiegazioni alternative: (a) il processo di subduzione B è stato così intenso da consumare la maggior parte della crosta paleozoica; (b) le “geosinclinali” paleozoiche non ebbero delle vere e proprie aree oceaniche. In una visione attualistica noi preferiamo accettare la prima;

·        Zone orogeniche precambriche  che costituiscono molte delle megasuture precambriane. Anche in questo caso non si hanno informazioni sulla crosta oceanica precambrica.

I bacini episuturali precambrici giacciono sulle megasuture precambriche, quelli paleozoici sulle megasuture paleozoiche e quelli mesozoici-cenozoici preservati giacciono sulle aree delle megasuture meso-cenozoiche.

 

Fig.131: Carta tettonica semplificata del mondo (modificata da Bally, 1975). Un semplice sguardo alle aree di megasutura e di crosta oceanica indica che il sistema megasuturale globale mesocenozoico consiste in due fasce: quella circum-Pacifica e quella della Tetide. Esistono inoltre vari sistemi di megasutura più antichi quali quello paleozoico e precambriano. I sistemi di megasutura fossili attuali formano, nel loro complesso, i continenti ed i loro margini. In modo analogo, le aree di crosta oceanica si possono distinguere in funzione della loro età di formazione. Le aree oceaniche terziarie comprendono ovviamente i sistemi di dorsali attive. Sulla base di un rapido esame si deduce che i bacini oceanici attuali non esistevano prima del Giurassico. Questo schema è in stretta relazione con il modello della tettonica a zolle che noi qui accettiamo quale base per la classificazione dei bacini. Si vedano anche le carte a colori fuori testo.

 

Fig. 132




  07.1.1 - Le Megasuture

Le megasuture corrispondono alle aree mobili della terra (catene a pieghe e falde) che testimoniano le complesse fasi di accrezione e deformazione subita dai corpi geologici in un regime Prevalentemente compressivo. Originariamente il termine di megasutura fu proposto per le zone orogeniche e i bacini sedimentari che si formano in queste aree deformate (Bally, 1975; BaIly e Snelson, 1980).

 

 

Fig. 133

 

 

Il concetto introdotto nel quadro di una nuova classificazione dei bacini sedimentari definisce i rapporti tra zone orogeniche e bacini sedimentari, sottolineando come l’evoluzione di ciascun bacino vada vista all’interno di quella più generale della zona orogenica cui appartiene.
Nelle aree di megasutura sono visibili i prodotti dei processi di piegamento, di sovrascorrimento e dell’attività ignea; ad esse sono inoltre associati gli scorrimenti di rocce crostali duttili e gli estesi corpi intrusivi e metamorfici delle zone orogeniche. Così le megasuture, se viste nei tempi lunghi dell’ordine di 10v- 108 anni, appaiono come zone molto mobili e deformate e non possono perciò essere considerate come parti di zolle rigide. Le megasuture possono essere meglio comprese se si usano quale esempio le zone orogeniche meso-cenozoiche molto diffuse sulla Terra. Queste aree appaiono delimitate da margini esterni (più avanti descritti) molto caratteristici, all’interno dei quali sono confinati prodotti dell’attività orogenica ceno-mesozoica e di quella ignea (megaciclo ceno -mesozoico) e bacini sedimentari. Infatti, nella formazione di queste aree, pur assumendo particolare rilievo i processi di compressione, sono frequenti sia i processi di distensione sia la formazione dei bacini, anche se questi ultimi appaiono subordinati e conseguenti ai complessi processi di subduzione. In termini attualistici queste strutture distensive (bacini in particolare) sono ad esempio i mari marginali del Pacifico occidentale, il Mediterraneo, il Mare dei Caraibi e il Mar della Scozia che sono tutti da includere nella classe dei bacini episuturali di cui si parlerà avanti. Naturalmente le ricostruzioni palinspastiche delle megasuture presentano varie difficoltà ed appare molto «rischioso» estrapolare i dati paleomagnetici e le ricostruzioni paleogeografiche di queste zone alle adiacenti aree cratoniche più rigide. Per evitare confusioni terminologiche ci pare opportuno precisare il significato del termine «sutura». Il termine «sutura» è largamente usato (v. ad es. Dewey e Burke, 1973; Ziegler et al., 1972; Burke et al., 1977) per descrivere delle fasce sottili e lineari che contrassegnano il limite di collisione tra due continenti o quello tra un arco ed un continente. Le ofioliti rinvenute lungo queste fasce vengono interpretate come residui di crosta oceanica messi in posto tettonicamente. L’andamento lineare che molte suture mostrano in pianta è però spesso dovuto alla sovrapposizione di faglie successive al vero e proprio processo di sutura. In realtà il termine «sutura» indica generalmente una giustapposizione di differenti domini paleogeografici continentali; e conseguentemente assume un significato più ristretto di quello dato al termine megasutura qui usato. Molti autori (Bucher, 1924, 1957; Dennis, 1967) preferiscono usare invece di megasutura il termine di zona mobile che, comunque, oltre ad essere usato anche in un diverso contesto, è stato definito in maniera molto vaga. Inoltre, per chiudere questa breve parentesi terminologica, il termine megasutura non va considerato sinonimo di «zona orogenica» o di «catena» poiché una megasutura è anche la sede di bacini profondi qui formatisi. Un’area di megasutura può raggruppare i prodotti di molte fasi orogeniche in più cicli di ordine superiore (ad es. ciclo mesozoico - cenozoico, paleozoico e diversi cicli precambriani). Questi cicli sono riferibili da un punto di vista concettuale ai cicli chelogenici di Sutton (1963) (fìde Read eWatson, 1975).

In conclusione una megasutura può essere paragonata a una larga saldatura formatasi durante una collisione continente-continente e/o continente-arco, con una mobilizzazione di spessori consistenti di basamento, come del resto suggerito dall’ampio spettro di età radiometriche misurate nelle rocce del basamento di zone piegate. Queste età spesso corrispondono a fasi di mobilizzazione e/o sollevamento e raffreddamento delle rocce del basamento.

Nel lessico della tettonica a zolle, la megasutura costituisce il prodotto integrato di tutti i processi riferibili alla subduzione che rappresentano la controparte dei processi di oceanizzazione durante il Mesozoico-Cenozoico. In altre parole l’antica crosta oceanica meso-cenozoica ed i margini passivi associati possono essere interpretati come i corrispondenti distensivi delle attuali aree compressive con i loro relativi margini attivi. Questo concetto sviluppato per primo da Wilson (Ciclo di Wilson, 1968) è messo in rilievo in questa sede, per la sua utilità come base per una proposta di classificazione dei bacini. Come già detto vengono distinti quattro tipi di margine di megasutura: I) margini di subduzione B o di Benioff, dove viene subdotta litosfera oceanica; 2) margini di subduzione A o di Ampferer, dove viene subdotta litosfera continentale; 3) sistemi di faglie trasformi; 4) un margine di tipo Cinese che è costituito da un inviluppo attorno a rocce intrusive felsiche. Questo quarto tipo di margine è stato distinto poichè in Cina il margine del continente antistante la megasutura meso-cenozoica non è associato, come ci si aspetterebbe, ad una tipica zona di catena esterna, ma è invece rappresentato da una fascia non ben definita di rocce ignee mesozoiche e terziarie che si intrudono profondamente nelle regioni della Cina e della Mongolia.
Nel loro insieme questi margini delimitano quattro tipi di megasuture meso-cenozoiche.

I) Megasutura di tipo Pacifico sud occidentale: si trova tra una suhduzione B ed un margine trasforme; corrisponde ad un sistema di arco vulcanico e bacini marginali.

2) Megasutura di tipo Pacifico nord occidentale: è compresa tra un margine di subduzione B e/o un margine trasforme sul versante Pacifico ed un margine con intrusioni felsiche di tipo cinese dall’altro. All’interno di questa zona orogenica si aprono e si chiudono mari marginali e vengono ingiobati frammenti continentali (per es. l’Indocina, la Piattaforma Sud-Cinese o il Lut Block dell’Iran).
3) Megasutura di tipo cordigliera: è contenuta tra una subduzione 8, dal lato che guarda verso l’oceano e/o un margine trasforme ed un margine di subduzione A verso il continente. L’apertura e la chiusura di mari marginali appare molto meno importante nella storia della cordigliera. mentre gioca un ruolo importante lo spostamento di tipo trascorrente di settori continentali.

4) Megasutura di tipo Himalayano -Alpino: è contenuta tra due margini di subduzione A disposti di fronte al Cratone Eurasiatico a nord ed ai continenti Africano-Arabo ed Indiano a sud. Questo tipo di megasutura rappresenta il prodotto finale delle collisioni continentali. Va sottolineato che l’intenso processo di deformazione con sovrascorrimenti dei corpi litologici, depositatisi su più antichi margini passivi, la diffusa rimobilizzazione del basamento a livello regionale e la presenza di metamorfismo sono processi caratteristici di margini di subduzione di tipo A. Diversamente, i margini di subduzione di tipo B mostrano accavallamenti ad embrice e deformazione dei sedimenti oceanici nei complessi di accrezione degli archi di isole e, nella fase finale, ulteriori processi di sovrascommento associati a sistemi di faglie trasformi. Il contrasto tra i due tipi di subduzione è illustrato da una sezione schematica che attraversa la Cordigliera Canadese.



  07.1.2 - Margini di megasutura

Per inquadrare i margini di megasutura in una prospettiva corretta vanno preliminarmente discussi l’origine e l’evoluzione del concetto di subduzione. In una documentata analisi, Trumpy (1975) parte dalla considerazione che la nozione di subduzione venne introdotta per primo da Ampferer (1906) e che le sue idee furono seguite negli anni successivi da molti geologi alpini che notarono che nelle loro sezioni geologiche la larghezza della copertura sedimentaria era notevolmente in eccesso rispetto alla superficie del relativo basamento. Queste considerazioni portarono alla convinzione che un consistente volume di  basamento, presumibilmente sialico, veniva «inghiottito» a grandi profondità (Verschluc kung). 

In seguito Amstutz (1951, 1957) introdusse il termine equivalente in francese (subduction) poi anglicizzato da White et al. (1970) per diventare parte essenziale della nomenclatura originatasi dallo sviluppo dei concetti di tettonica a zolle. Nella sua nuova accezione il termine non corrispose più all’originale concetto alpino che lo legava alla nozione di una litosfera sialica sub- dotta, ma indicò una zona dove una litosfera prevalentemente oceanica viene subdotta. In questo modo la subduzione di crosta continentale, caratterizzata dalla tendenza a «galleggiare», assunse una trascurabile importanza nei casi di collisione continentale.


Come Trumpy ha precisato, nelle zone di subduzione alpine la parte superiore del basamento sialico viene coinvolta ma il fenomeno è visibile solo a piccola scala. Sebbene sia difficile dimostrare la subduzione di litosfera continentale in profondità, è tuttavia possibile dedurne la presenza sia dalle ricostruzioni palinspastiche che dai recenti terremoti (v. I.aubscher, 1974, Panza et al., 1980. Se la subduzione di litosfera continentale è soltanto dedotta, la subduzione di litosfera oceanica lungo la zona di Benioff (subduzione B) è comprovata da una documentata evidenza sismologica.
Nelle megasuture meso-cenozoiche  possiamo differenziare quattro fondamentali tipi di margine che hanno in gran parte significato analogo ai margini di zolla.

1) Margine esterno di zona di Benioff o di subduzione B. E’ una zona dove la zolla di litosfera oceanica si immerge sotto la zolla continentale sialica. Attualmente le zone attive di subduzione B sono accompagnate da terremoti superficiali/intermedi/profondi e/o da una deformazione principale di età cenozoica. I sismologi stanno studiando la dinamica di queste zone in grande dettaglio (Sykes, 1972; Oliver et al., 1973). Sezioni schematiche di zone di subduzione B ricavate da profili sismici a riflessione in esse sono visibili lo scollamento (dècollernent) superficiale o l’asportazione di sedimenti dal tetto della crosta oceanica basaltica. Lo spessore dei sedimenti, il rapporto tra la velocità di sedimentazione e la velocità di sprofondamento della zolla e le proprietà reologiche delle rocce deformate determinano una grande variabilità di stili tettonici che si possono osservare nelle zone di accrezione dei margini convergenti e che vanno dallo stile ad embrici della Fossa di Giava a quello risultante dalla combinazione di strutture embriciate e faglie listriche normali con «crescita» nell’offshore della Colombia fino allo stile più semplice di pieghe di scollamento delle Barbados (Biju Duval et al., 1984). Sono inoltre noti profili sismici a riflessione in cui la crosta oceanica appare coinvolta senza dubbio alcuno in processi di subduzione (Kroenke, 1972; Kulm et al., 1973); o in cui il processo di subduzione cenozoica può essersi già esaurito come si osserva nella Fossa di Palawan (Isole Filippine) dove la zona di subduzione è stata ricoperta già nel tardo Miocene da sedimenti più recenti.
In alcuni casi la deformazione delle zone di subduzione B pare sia avvenuta in un regime ad alta pressione di porosità descritto, ad esempio, da Shouldice (1971) per la zona di subduzione al largo dell’Isola di Vancouver. I sedimenti oceanici che raggiungono la zona di subduzione conservano quasi integra la loro porosità e il relativo contenuto in acqua in quanto essi sono solo parzialmente consolidati. Questi caratteri potrebbero essere all’origine della formazione dei «mélanges» costituiti da pacchi di sedimenti semiconsolidati strappati dal sottostante basamento oceanico; in realtà i mélanges sono spesso difficilmente differenzia- bili dai grandi accumuli da frana indotti dalla tettonica (olistostromi) che frequentemente si trovano lungo le scarpate sottomarine dei margini attivi. Un altro dato in accordo con il regime di alta pressione di porosità è quello della presenza di grandi volumi d’acqua nella sottostante crosta oceanica, acqua che si è prodotta durante il raffreddamento di basalti e di intrusioni poco profonde nel corso della formazione di nuova crosta oceanica (Fyfe, 1974, 1976). Se ne dedurrebbe che la superficie di una zolla in subduzione contiene generalmente grandi quantità d’acqua e si trova in un regime di alta pressione di porosità (Von Huene e l_ee, 1982). Queste caratteristiche favorirebbero una subduzione «silenziosa», praticamente senza frizione, e spiegherebbero perché gli epicentri dei terremoti vengono registrati soltanto all’interno di parti più rigide della zolla.


2) Margine esterno di zone ceno-mesozoiche di tipo Ampferer o zone di subduzione A. E’ una zona dove una parte di crosta sialica può trovarsi subdotta a profondità intermedie, al di sotto dell’area di megasutura, e dove si formano scollamenti per pieghe a grande scala e vasti sovrascorrimenti della sovrastante copertura sedimentaria. Un esempio probante di subduzione A viene dalle Montagne Rocciose del Canada Occidentale; le ricostruzioni da sezioni geologiche basate su dati di sismica a riflessione indicano che l’ampiezza della copertura sedimentaria è sostanzialmente in eccesso rispetto al substrato continentale sottostante (BalIy et al., 1966; Gordy et al., 1975). Poiché tutti i dati escludono i convenzionali scivolamenti gravitativi da aree sollevate (Bally, 1981), si può dedurre che sia sottoscorsa quella parte di crosta continentale, precedentemente assottigliata, che si trovava al di sotto della «miogeosinclinale paleozoica» della futura cordigliera canadese.
I caratteri di una tipica subduzione A si ritrovano nella zona esterna (sensu Kober, 1928) della catena paleozoica delle Ouachita e degli Appalachi (Roeder, 1978; Harris et al., 1981; Cook et al., 1983; L.aroche, 1983). Le ricostruzioni paleotettoniche nell’area alpina (Laubscher, 1965; Trumpy, 1969) provano l’esistenza di un processo di subduzione di crosta sialica. Alcuni autori vedono la subduzione A come un processo subordinato ma lo collegano, correttamente, ad una collisione continentale come già anticipato da Argand (1924). Alcune zone di subduzione A quali quelle delle Alpi, dell’Himalaya e di Zagros, formatesi per collisione continentale, farebbero seguito a zone di subduzione B, già attive prima della collisione.

Lo stile di deformazione strutturale delle zone di subduzione A varia in ragione delle differenze di duttilità all’interno del pacco di sedimenti coinvolti nella deformazione. Velocità di subduzione e quantità di crosta sialica coinvolta nella subduzione A sono notevolmente inferiori ai valori relativi alla crosta oceanica nel caso della subduzione B. I meccanismi del processo di subduzione A appaiono poco chiari, ma le riserve concettuali, oltre che le difficoltà meccaniche, relative alla subduzione di sostanziali porzioni di litosfera continentale, sono in parte superate dalla semplice osservazione che in ogni caso viene subdotta una crosta continentale precedentemente assottigliata. Tuttavia c’è sempre stata molta riluttanza da parte dei teorici della tettonica a zolle ad accettare la subduzione A. Essi sostengono, infatti, che la forte tendenza al «galleggiamento » da parte della crosta continentale dovrebbe impedire una subduzione quantitativamente significativa.
Molnar e Gray (1979) ritengono che porzioni cospicue di crosta continentale (crosta inferiore) possono essere subdotte soltanto nel caso in cui vengano separate dalla soprastante crosta superiore. Questi autori pensano che le stesse forze gravitazionali che agiscono sulla litosfera oceanica in subduzione potrebbero spingere la litosfera continentale, priva della parte superiore (crosta continentale leggera), giù verso l’astenosfera. Tale “spinta” sarebbe contro- bilanciata dalla tendenza al galleggiamento della crosta continentale leggera. In simili circostanze e sulla base di assunzioni di varia natura, potrebbe essere subdotta una parte di crosta continentale compresa tra pochi km e 330 km di lunghezza. Questi valori dipendono dagli spessori di crosta continentale inferiore che possono essere scollati durante la subduzione. Il modello elaborato da Bird et al. (1975) e Bird (1978) descrive una situazione termica e meccanica capace di determinare la «delaminazione» di litosfera subcrostale che avverrebbe con l’inserimento o l’
Come geologi possiamo quindi continuare a raccogliere dati che possano dare una spiegazione del reale raccorciamento osservato nelle catene montuose.


3) Margine esterno di tettonica trascorrente (lungo faglie trasformi). Si trova in alcune aree quali ad es. la California meridionale e la Nuova Zelanda dove la zona di megasutura è attraversata da un sistema di dorsali e di faglie trasformi che si sovrappongono a zone precedentemente compresse.

4) Zona di inviluppo intorno ad intrusioni ignee felsiche. I tipi di margine prima proposti non sono applicabili alla Mongolia e alla Cina (Terman, 1974; People’s Republic of China, 1975, 1976; Bally et al., 1980), dove le zone di subduzione B del Pacifico occidentale non hanno un’equivalente fascia di subduzione A. In queste regioni il margine occidentale della megasutura è dato dal limite più occidentale di una fascia di intrusioni mesozoiche. Il margine della fascia di intrusioni è adiacente a ciò che costituiva l’avanpaese mesozoico e cenozoico, dominato da tettonica trascorrente e distensiva (Dewey e Burke, 1973; Terman, 1974; People’s Republic of China, 1975, 1976; Molnar e Tapponier, 1975). Questo suggerirebbe il fatto che la deformazione dell’avanpaese è solo marginalmente legata allo sviluppo delle megasuture.



  07.1.3 - Bacini Sedimentari
I bacini sedimentari sono qui definiti come aree subsidenti, con spessori di sedimenti che superino comunemente il km, e che siano ancora oggi conservati in maniera più o meno integra (Bally e Snelson, 1980). Le piane abissali degli oceani e alcuni mari marginali circum -Pacifici i cui sedimenti hanno a volte spessori normalmente inferiori a 1 km, non vengono qui trattati.
La nostra definizione di bacino esclude nel modo più esplicito le zone piegate che coinvolgono successioni sedimentarie potenti e deformate in modo complesso e che talvolta contengono notevoli volumi di idrocarburi. La definizione di bacino esclude anche altre strutture (a volte positive per un’indagine petrolifera) come gli alti intracratonici caratterizzati da sottili coperture sedimentarie.
Questo schema differisce da classificazioni precedenti (K1me, 1975, 1977; Perrodon, 1971, 1977; North, 1971; Mc Crossan e Porter, 1973), poiché si basa interamente sui concetti della tettonica a zolle. Pone infatti in maggior rilievo la localizzazione dei bacini rispetto alle mùteaiidisuboAeB.
Pur seguendo per molti versi gli schemi di Dickinson (1976) che ha classificato i bacini tenendo presente la tettonica a zolle, la nostra classificazione se ne differenzia per molti aspetti tra cui la tendenza alla gerarchizzazione dei diversi tipi di bacino.


  07.1.4 - La nozione di geosinclinale

Sono necessarie alcune premesse per permettere al lettore di trovare un riferimento con la tradizionale nomenclatura delle aree sedimentarie legata al concetto di geosinclinale. Il comune uso della terminologia antecedente la tettonica a zolle è stato già discusso da King (1969a). Dewey e Bird (1970) cercarono di accordare i vecchi concetti di geosinclinale con quelli della tettonica a zolle mentre Dickinson (1971a) giunse alla conclusione che «i principi della teoria classica della geosinclinale che nel passato avevano giocato un ruolo notevole come strumento per classificare gli elementi tettonici, apparivano a questo punto ostacoli non necessari per il pensiero geologico nel futuro». Hsu (1972a) descrisse lo sviluppo della teoria della geosinclinale e propose di conservare l’uso della nomenclatura geosin clinalica restringendola alla descrizione dell’ambiente tettonico delle successioni sedimentarie e rocce loro correlabili che si trovano negli attuali margini continentali o di zolla.

Sulla base di queste premesse riteniamo che vadano ribaditi questi concetti.
— La nozione di geosinclinale e le classificazioni relative furono basate su deduzioni derivate da osservazioni di campagna. Questi concetti si svilupparono prima delle indagini geofisiche ed oceanografiche. In molti casi i concetti originari non si accordano con i nuovi dati.
La maggior parte delle orto, mio ed eugeosinclinali della letteratura precedente sono oggi strutture deformate e completamente distrutte per successivi piegamenti o processi erosivi e di conseguenza sono relitti incompleti di bacini più antichi. La vecchia terminologia non differenzia quindi gli originari bacini rimasti integri dai bacini deformati. Da un punto di vista pratico tale differenza è essenziale. Sarebbe d’altro canto opportuno, da un punto di vista concettuale, fare una classificazione indipendente dalle problematiche relative alla ricostruzione di complesse aree a pieghe. Tale approccio ci permetterebbe di distinguere i dati reali delle ricostruzioni a posteriori.
— I concetti fondamentali della geosinclinale elaborati ad esempio da Kay (1951) e da Auboin (1965) erano fondati sulle ricostruzioni paleogeografiche che sono spesso difficilmente comparabili con gli esempi attuali di bacini preservati, come è stato dimostrato da molte sezioni sismiche. Così secondo alcuni ricercatori una eugeosinclinale dovrebbe comprendere l’intero spettro di ambienti di un margine attivo attuale inclusi: l’arco insulare, l’arco vulcanico, i complessi sedimentari di subduzione, l’avanarco, il retroarco ed i mari marginali. Altri autori vedrebbero nel fondo oceanico con il suo basamento spilitico, i frequenti seamounts vulcanici e le coperture sedimentarie una eugeosinclinale o possibilmente una leptogeosinclinale.

— Molto è stato detto a proposito della somiglianza tra le piattaforme continentali di tipo Atlantico e le miogeosinclinali (miogeoclinali di Dietz. 1963 e di Dietz e Holden 1966). Le miogeonclinali sono concettualmente accoppiate alle eugeosinclinali. Per i margini di tipo Atlantico la coppia può essere ancora prefigurata se si ammette che il fondo oceanico con i suoi seamounts rappresenti la eugeosinclinale (o la leptogeosindinale quando la sottile sequenza sedimentana non è ricoperta da spesse conoidi sottomarine). In contrasto con questo punto di vista, alcuni autori riconoscono i caratteri di miogeosinclinale nel lato continentale dei bacini marginali del Pacifico occidentale.
Si può in sostanza dire che la nomenclatura geosinclinalica è sopravvissuta alla sua stessa utilizzazione: in ogni caso la conoscenza e la familiarità con questa terminologia è assolutamente necessaria per poter comprendere sia i numerosi lavori basati su questi concetti, sia lo sviluppo storico del pensiero geologico.

Rimane ovviamente il problema della nomenclatura degli antichi bacini, oggi deformati ed incorporati nelle catene montuose, che sono stati ricostruiti usando le varie ed a volte azzardate metodologie palinspastiche. Onde evitare l’introduzione di nuovi termini si potrebbe quindi continuare ad usare il termine miogeosinclinale per i paleobacini essenzialmente non vulcanici ora deformati in zone orogeniche. mentre il termine eugeosinclinale dovrebbe, in ogni caso, essere abbandonato. In futuro gli antichi «domini eugeosinclinalici» potrebbero essere meglio descritti nel quadro della classificazione dei bacini qui proposta (eventualmente completata da una classificazione delle aree sollevate) aggiungendo un prefisso come «paleo» e una definizione delle fasi di subsidenza.



  07.1.5 - La classificazione dei bacini

La classificazione qui adottata è quella elaborata da Bally e Snelson, (1980); essa differenzia tre fondamentali famiglie di bacini sedimentari:

— bacini localizzati su litosfera rigida, relativamente non deformata, e non associati con la  formazione di megasuture:

— bacini perisuturali su litosfera rigida fiancheggianti ed associati a megasuture;
— bacini episuturali localizzati su megasuture ed in gran parte contenuti al loro interno.

 

 

 

Fig. 134 A




Fig. 134 B

 

Fig.135: Bacini sedimentari associati alle megasuture meso-cenozoiche.


 

 


 

Fig. 136

 

 

Fig. 137

 

 

Fig. 138

 

Nei bacini di avanarco l’evoluzione è fortemente influenzata dall’attività del complesso di accrezione e la deposizione può essere sia di mare profondo che di mare basso, costituita da sedimenti sia terrigeni che clastici, in quanto è situato in prossimità delle aree di alimentazione, cioè il complesso di accrezione e l’apparato vulcanico.

 

 

Fig. 139

 

Fig. 140

 

 

Fig.141: Bacini su litosfera rigida non associati a formazione di megasutura

 

Fig. 142: Bacini perisuturali. Questi bacini associati alla formazione di megasuture sono localizzati ai loro margini. Si differenziano in fosse oceaniche, determinate da processi di subduzione ti tipo B, e in avanfosse associate a margini di collisione (tipo A). Entrambi i tipi di bacini possono essere visti come fosse che si sovrappongono a segmenti crostali che si immergono al di soto delle megasuture (pendio regionale). Al contrario delle fosse oceaniche le avanfosse sono estremamente importanti per la ricerca petrolifera. Si distinguono avanfosse con o senza basamento dissenzionato da tettonica a blocchi.


 

 

La subduzione del margine passivo determina la formazione di una struttura a falde (catena) analoga a quella che si forma in un complesso di accrezione.

 

Al suo interno la zona deformata non mostra generalmente la stessa morfologia di strutture descritta precedentemente per i margini di subduzione di tipo B. Questa differenza è determinata dal tipo di sedimenti coinvolti nella deformazione e dalla natura della zolla subdotta. Il complesso di accrezione di un margine di subduzione di tipo B è generalmente costituito da sedimenti di bacino oceanico poco potenti e comunemente privi di continuità laterale che si comportano, durante la deformazione, come rocce incompetenti dando perciò luogo a falde epidermiche con una intensa deformazione interna. Le rocce sedimentarie dei margini passivi, invece, costituiscono corpi sedimentari molto più potenti che si comportano come rocce competenti durante il raccorciamento, formando unità tettoniche in falde più spesse e con una blanda deformazione interna. Il grado di deformazione della zolla sovrastante aumenta man mano che vengono subdotte le coperture sedimentarie depositatesi sulla crosta transizionale del margine passivo (aumenta quindi in relazione alla subduzione di crosta continentale assottigliata).

L’evoluzione del processo di subduzione viene contrastato dalle spinte al “galleggiamento” quando ha inizio il processo di subduzione della litosfera continentale relativamente non deformata. Per spiegare il processo continuo di sottoscorrimento di litosfera continentale (valutato almeno in 300).

 

 

 

 

Fig. 143: Bacini episuturali. Questi bacini si localizzano all’interno delle megasuture. Per le aree di megasuture affioranti il termine di bacino in tramontano appare ancora appropriato. I bacini episuturali si formano in regime di collisione delle zolle e di conseguente formazione di mari marginali e margini attivi. Questi bacini hanno una vita breve poichè tendono ad essere coinvolti nei processi orogenetici che seguono la loro formazione.Di conseguenza i bacini episuturali più antichi ancora intatti sono in numero esiguo. Nella figura viene indicata la distribuzione dei maggiori bacini episuturali all’interno delle megasuture meso-cenozoiche. I bacini associati ad un margine di subduzione B sono indicati con puntini e sono presenti nelle aree circumpacifiche. I bacini associati ad una zona di subduzione A sono indicati con linee verticali. Essi tendono a disporsi secondo due fasce di direzione N-S (dalla Siberia al Sud America) l’una ed a direzione E-W (attraverso la regione Tetide-Mediterranea) l’altra.

 

Fig. 144

 

 


Finestra 3:  Sedimentazione e Bacini Sedimentari

 

 

Principali fattori che controllano la sedimentazione

1) Clima e latitudine

2) Variazioni del livello del mare

3) Paleo - geologia ereditata

4) Tettonica

 

I bacini sedimentari si formano

1) Su crosta continentale

2) Associati alla formazione di crosta oceanica

3)  Associati alla subduzione

4)  Associati alla collisone continentale

5) In ambienti transformi/strike-slip

 

Gli accumuli  sedimentari si formano

1) Su crosta oceanica come larghi fans sottomarini

2) Come rigonfiamenti sedimentari, a causa di correnti termoaline

3)  Come costruzioni biogeniche e biochimiche

4)  Come cunei o prismi di accrezione, legati alla tettonica

 

su crosta continentale – Sags e rifts

1) Grandi sags (bacini di avvallamento: per es. il Lago Chad, Mar del Nord meridionale; laghi e deserti.

2) Fosse tettoniche (rift): per es. i rifts dell’Africa orientale, il Graben della Valle del Reno; il lago di Baikal.

4) Rifts  di nuova generazione: per es. il Mar Rosso, mar del Nord settentrionale.

5) Bacini cinesi.

6) I bacini trascorrenti

7) Bacini di avampaese.

 

 

Apertura di un oceano e  margini continentali

1)     Centri di espansione medio-oceanica

       (a) bacini di rift, b) bacini transformi.

2)     Rifts abortiti (alaucogeni), per es., il Benue Trough, Delta del Niger.

3)     Piane abissali oceaniche; rigonfiamenti sedimentari, larghi fans sottomarini.

4)     Bacini di margine continentale.

Processi sedimentari di mare profondo

1)      Pelagici

2)      Chimici/Biochimici; rimaneggiamento biogenico.

3)      Emipelagici.

4)      Trasporto gravitativo di massa: (1) frane, 2) slides e slumps, 3) flussi gravitativi di sedimenti (Debris flow, correnti torbiditiche).

5)      Correnti indigene, incluse correnti di fondo termoaline, che diventano correnti di torbida a bassa densità.

ambienti di  subduzione

Due principali tipi: a) accrezione di sedimenti di fondo-mare

                                b) subduzione di sedimenti di fondo-mare

 

Gli accumuli sedimentari avvengono:

1)      <!--[endif]-->sui fondi oceanici come fans sottomarini, per es. Bengal Fan, Proto-Orinoco Fan (Barbados).

2)      Nelle fosse

3)      Come prismi sedimentari di origine tettonica

4)      Su bacini di scarpata interna, per es., America Centrale, Oregon, Sumatra (Isole Mentawai), Nuova Zelanda.

5)      In bacini di avan-arco/di arco esterno

6)      In bacini di retro-arco.

7)      In vicinanza di archi magmatici.

 


Bacini sedimetari legati alla collisione continentale

1) Bacini oceanici relitti, per e., il Delta del Gange (Baia di Bengal).

2) Bacini di avampaese e avanfossa, per es., Ganges-Brahmaputra.

3) Bacini di tipo  strike-slipe

4) Bacini di rift, per es., Graben di Baikal, Graben del Reno.

 

Antichi bacini strike-slip

1) Movimenti verticali molto rapidi

2) Input sedimentario: alto; sedimentazione molto rapida

3)  Potente riempimento sedimentario

4) Le facies sedimentarie, specialmente quella conglomeratica, hanno una limitata estensione geografica. Le facies cambiano lateralmente in maniera molto rapida.

5) Importanti discordanze di estensione laterale limitata.

6) Metamorfismo limitato

7) Scarsa attività ignea

8) Le faglie e gli assi delle pieghe si sviluppano in sistemi en-echelon.

9) I sedimenti si ritrovano lontani dalla loro zona sorgente.



07.2 - LE ZONE OROGENICHE

Prima di iniziare l’analisi dei bacini sedimentari collegati alle aree di megasutura appare opportuno fare alcune premesse sui sistemi orogenici.

Secondo la tettonica a zolle le catene montuose rappresentano il prodotto di processi di subduzione lungo margini di zolla convergenti. Catene a pieghe e sovrascorrimenti hanno un’origine compressiva e sono costituiti da corpi sedimentari e da scaglie del sottostante basamento cristallino, rispettivamente asportati e distaccate dalla zolla in subduzione. Le numerose osservazioni fatte nelle catene montuose si inseriscono molto bene negli schemi della tettonica a zolle; tuttavia malgrado le brillanti anticipazioni e le intuizioni di Ampferer (1906), Argand (1924), Staub (1928) e altri geologi delle Alpi, la tettonica a zolle non è facilmente deducibile dai soli dati provenienti dalle ricerche sulle catene montuose. L’ipotesi della tettonica a zolle rimane infatti ancorata soprattutto alle osservazioni geofisiche e della Geologia marina, I sedimenti di mare profondo e i resti di un possibile fondo oceanico (ofioliti), elementi fondamentali della teoria, occupano però soltanto aree ristrette delle catene ed a volte sono assenti. La spiegazione della costruzione delle catene montuose, nel quadro della tettonica a zolle, non è quindi tanto ovvia come potrebbe sembrare. Gran parte delle strutture che oggi sono presenti nelle catene montuose suggeriscono una diffusa «mobilizzazione » e «duttilizzazione» della parte superiore (crosta e sedimenti) della litosfera, mentre la restante parte della litosfera è subdotta in un regime fragile. In altre parole, mentre la litosfera continentale sottostante ai cratoni rimane rigida, la litosfera continentale sottostante alle catene montuose appare «rimobilizzata» in modo pervasivo durante i processi orogenici. I processi legati a faglie normali, a sovrascorrimenti e pieghe nelle catene montuose (v. Bally, 1981) sono l’espressione in superficie dei livelli di scollamento che separano la parte deformata della litosfera superiore che galleggia sulla litosfera subdotta. Le zone orogeniche della Terra sono comprese, come già detto, nelle megasuture (Sig. 93). Ad esempio la megasutura meso-cenozoica include tutte le regioni di estesa formazione di catene durante il Mesozoico-Cenozoico e tutti i bacini sedimentari coinvolti in questi processi.



  07.2.1 - Ruolo del Basamento Cristallino nelle Catene

Nel quadro dello sviluppo delle zone orogeniche e del concetto di megasutura, va approfondito il ruolo del basamento cristallino. Come si sa il basamento cristallino delle zone piegate non si comporta, durante i processi orogenici, come parte di una litosfera rigida. Conseguentemente è utile distinguere i settori litosferici relativamente più rigidi da quelli in cui il basamento è stato rimobilizzato ed è andato soggetto a metamorfismo regionale o si è scagliato in blocchi poi sovrascorsi o ruotati da movimenti complessi di trascorrenza. In base a questa distinzione il basamento che costituisce il pendio monoclinalico regionale (v. più avanti) sul quale giacciono pieghe e falde superficiali delle zone esterne di catena, corrisponde sicuramente alla litosfera rigida. Le zone più interne, rimobilizzate e metamorfosate e le scaglie minori di basamento (Terreni), coinvolte durante il processo orogenico, corrispondono invece alla litosfera superiore rimobilizzata. Le ricostruzioni della tettonica a zolle che sono basate sulle analisi paleomagnetiche e stratigrafiche di aree localizzate in un orogeno vanno necessariamente confrontate e riferite alle aree cratomche che sono adiacenti alle catene. In questo contesto, per individuare con certezza i blocchi originali da utilizzare nelle ricostruzioni della tettonica a zolle, è necessario mappa- re le aree delle masse continentali relitte, pre-mesozoiche e pre-cambriane. I limiti dei differenti blocchi originari sono mostrati in fig. 95a per l’inizio del Paleozoico e in fig. 95b per l’inizio del Mesozoico (in Bally et al.,1985). La presenza di relitti di basamento pre-cambriano e paleozoico nelle catene formatesi successivamente sottolinea ancora di più il carattere ensialico dell’orogenesi.



  07.2.2 - Processi di deformazione nelle zone esterne delle catene.

Le zone esterne delle catene (Esternidi di Kober, 1928) corrispondono, alla luce delle moderne vedute, sia ai complessi di accrezione che si formano ai margini di subduzione B,sia, a maggior ragione, alle zone orogeniche che si originano durante la subduzione A.
I processi di raccorciamento e il loro ordine di grandezza sono dipendenti in gran parte dal tipo, profondità e forma delle superfici di distacco tettonico. Ma, mentre lo stato delle conoscenze e la quantità di dati appaiono inadeguati per calcolare l’ammontare del raccorciamento nei complessi di accrezione della subduzione B, il calcolo dei raccorciamenti nelle zone esterne, legate a subduzione A, appare meno approssimativo e diventa possibile con l’aiuto di sezioni strutturali che siano state basate anche su dati di sismica a riflessione.

 

 

 

 


Fig. A1

 

 

Fin da quando Buxtorf (1916) introdusse il concetto di «decollement» per definire da un punto di vista geometrico la superficie di distacco delle zone piegate, sono state pubblicate numerose sezioni geologiche che mostrano la struttura profonda delle zone esterne delle catene e del loro avanpaese più o meno deformato. Un sommario delle metodologie in uso si trova in recenti lavori di Laubscher (1965, 1980); Suppe (1980) e Boyer e Elliott (1982). lI rapido progredire delle tecniche di sismica a riflessione, usate soprattutto nella ricerca petrolifera, ha permesso di identificare, contrassegnandoli, i livelli più importanti di distacco crostale. In questo contesto vengono usati termini come decollement o detachement per indicare le superfici di distacco tettonico all’interno delle successioni sedimentarie e termini come delamination (Bird, 1978) per le superfici di distacco nel basamento. Lo sviluppo delle tecniche della sismica a riflessione per l’esplorazione nei campi di gas del Canada occidentale, ha contribuito a separare nelle zone esterne di catena due unità fondamentali: la catena vera e propria e un pendio (monoclinale) regionale caratterizzato da debolissima pendenza che s’immerge al di sotto della catena a pieghe e falde (v. Fox, 1959; Bally et al., 1964; Keating, 1966). Questa monoclinale regionale è stata in seguito rinvenuta e ben documentata da linee sismiche a riflessione pubblicate in diverse zone orogeniche quali gli Appalachi, le Ouachita, le Montagne Rocciose (Wyoming), gli Appennini, le Alpi Orientali. Il riconoscimento di questa struttura regionale ha grandemente facilitato la costruzione di sezioni geologiche bilanciate  e reso meno improbabili le relative ricostruzioni palinspastiche (Bally et al., 1964; Dahlstrom, 1969, 1970; Price e Mountjoy, 1970; Royse et al., 1964; Roeder et al., 1978; Price, 1981).

 

 

Fig. A-2

 

 

Successivamente sono stati elaborati modelli teorici sulla genesi e la migrazione delle avanfosse, fondati sul concetto della presenza di una monoclinale regionale di litosfera continentale che si flette sotto il peso di falde tettoniche (Beaumont, 1980; Beaumont et al., 1982) precedentemente messe in posto in corrispondenza dei processi di subduzione di litosfera continentale.
La combinazione dei dati di sismica a riflessione profonda del tipo COCORP (Cook et al., 1981, 1983; Allmendiger et al., 1983; Dohr et al., 1975, 1983) con quelli provenienti da profili sismici meno profondi (eseguiti dalle compagnie petrolifere) ha permesso di riconoscere delle grandi superfici di sovrascorrimento che sembrano essere rimaste attive per tutta la durata di una orogenesi. I piani delle superfici di distacco (essenzialmente listriche) si appiattiscono  e confluiscono in livelli unici di distacco all’interno e/o alla base della successione sedimentaria e nella fase finale possono anche confluire lungo superfici di distacco nella crosta o addirittura nel mantello superiore (delaminazione). In questo contesto viene anche il sospetto che la discontinuità di Conrad dei geofisici europei e russi possa essere niente altro che uno di questi livelli di distacco. Uno degli obiettivi della ricerca geofisica nei prossimi anni sarà probabilmente quello di definire al meglio il meccanismo delle maggiori superfici di distacco.
La presenza di sistemi listrici di distacco a scala regionale fu inizialmente riconosciuta con i rilievi geologici di superficie ma venne documentata più tardi e per la prima volta nelle Montagne Rocciose Canadesi da Bally et al. (1966), con l’aiuto dei profili sismici a riflessione  e da studi successivi di Dahlstrom (1969), Price et al. (1970).

Sulla base di questi studi e di dettagliate analisi cinematiche si è potuto constatare che, nelle zone di catena riferibili a subduzione A, la deformazione della copertura sedimentaria coinvolta in pieghe e falde procede generalmente dall’interno verso l’esterno (dalle aree interne verso quelle esterne) della zona orogenica  e che le superfici di distacco tettonico tendono a scagliare per primi i livelli stratigrafici più alti e successivamente quelli più profondi (per dettagli ulteriori, vedi Fig. 141-142). E’ da notare che la geologia di superficie non sempre rivela la reale progressione della deformazione perché, con livelli pellicolari di scollamento sovrapposti in discontinuità, il piano di distacco tettonico più e- levato è spesso dislocato da un piano di taglio più profondo la cui superficie listrica di scollamento è più inclinata. In conclusione i profili sismici effettuati in zone orogeniche ci indicano che queste sono controllate da sistemi listrici di distacco interdipendenti ed attivi per lungo tempo. Queste osservazioni ci obbligano a rimettere in discussione il concetto di fase orogenica, estesa a scala planetaria e di breve durata, postulato da tanti Autori sulla scia di Still (1924). Gilluly (1973) aveva in realtà già precisato che una nozione di orogenesi episodica è essenzialmente incompatibile con il processo continuo e maestoso degli eventi della tettonica a zolle. Tuttavia le discordanze quasi globali esistono e sono state illustrate con abbondanza di dati nelle curve delle successioni stratigrafiche date da Vail et al. (1977) e Schwan (1980). Schwan (1980), seguendo la tradizione di Stille, correla le fasi orogeniche nei continenti con le discontinuità tra successioni di bande magnetiche verificatesi nel corso dei movimenti di zolle nell’Oceano Nord Atlantico (fig. 104). Secondo Vail (1980) le fasi orogeniche ricadono all’interno delle più importanti discordanze (v. Johnson, 1971), quindi le fasi orogeniche risultano correlabili con le successioni stratigrafiche continue.
Bally (1980) avanza l’ipotesi (anche a sostegno del punto di vista espresso da Johnson, 1971) che le successioni stratigrafiche riflettano un «continuum» nella tettonica a zolle, mentre le più importanti discordanze segnino il diminuire e quindi l’esaurirsi di un importante regime di tettonica a zolle e l’inizio della riorganizzazione delle zolle in un nuovo regime di tettonica globale.

Lo studio dei profili sismici a riflessione di zone di deformazione plio-pleistocenica (ad es. Pianura Padana, Sicilia sud occidentale), di catene quindi, poco erose e, di contro, le indagini condotte nelle catene più antiche (profondamente erose) ci fanno comprendere come sia quasi impossibile decifrare e datare nel dettaglio l’evoluzione cinematica di una zona orogenica antica. L’esame degli splendidi profili sismici a riflessione attraverso la Pianura Padana al margine con l’Appennino Settentrionale (Pieri e Groppi, 1980; Pieri, 1983) rivelano una complessa storia di deformazione che si è sviluppata durante il Plio -Pleistocene In queste sezioni la deformazione migra verso l’avanpaese dando luogo a superfici di distacco successivamente più profonde che scagliano terreni sempre più antichi dal Neogene al Mesozoico. Le pieghe sembrano svilupparsi in periodi di tempo dell’ordine di 1 o 2 MA; ogni qual volta il processo di piegamento si completa con una faglia inversa, la deformazione si sposta più avanti nella piega in posizione più frontale. In alcuni profili si riconoscono intervalli di tempo di circa 2 MA rappresentati da circa 30 riflettori sismici (60 mila anni per riflettore) che costituiscono dei veri e propri livelli di correlazione. Queste caratteristiche sono diffuse in molte catene formatesi nel Plio-Pleistocene. Il potere di risoluzione dei profili sismici non è altrettanto buono nelle zone orogeniche più antiche ed i geologi di terreno sono stati sempre indotti ad accettare l’esistenza di una locale superficie di discordanza rappresentata dall’intero sistema di catena. Analisi più accurate condotte sui profili sismici a riflessione suggeriscono però che queste estrapolazioni possono essere azzardate. L’analisi delle Montagne Rocciose Canadesi (Bally et al., 1966; Price, 1981; Price et al., 1970) permette di stabilire soltanto che il regime compressionale nell’avanpaese piegato e scagliato cessò tra la fine del Paleocene e l’inizio dell’Oligocene. L’età di formazione di molte faglie e quella dei piegamenti non può essere determinata e le relazioni cinematiche suggeriscono soltanto che la deformazione avanza da ovest verso est e dall’alto verso il basso. Se la deformazione è stata essenzialmente continua o prodotta da brevi fasi successive o da un’unica e importante fase (laramide nel caso specifico) non può essere rilevato nè dai dati di superficie nè da quelli sismici di cui disponiamo. Nelle Montagne Rocciose del Wyoming  le discordanze osservate indicano soltanto alcuni punti fissi (cinematici) in un sistema di faglie listriche inverse interdipendenti che migrava progressivamente verso il cratone (Armstrong e Oriel, 1965; Royse et al., 1965; Dorr et al., 1965). I sovrascorrimenti hanno dapprima coinvolto le successioni sedimentarie e successivamente hanno prodotto la delaminazione del basamento precambriano. Il sistema restò attivo dal Giura superiore all’Eocene medio, in coincidenza con i processi di oceanizzazione nell’Atlantico (Coney, 1979), con la subsidenza del margine Atlantico e con i processi di scollamento che investirono l’avanfossa delle Montagne Rocciose. Nel caso della Cordigliera Occidentale (americana e canadese) il regime compressivo manifestatosi nell’intervallo Giurassico sup. -Eocene medio, venne seguito da una fase distensiva databile al Paleocene superiore -Neogene. Questa tettonica distensiva riprese le superfici di distacco precedentemente formatesi che così divennero piani di faglie listriche dirette e di faglie trasformi.

 

Fig. A-3


  07.2.3 - Cenni sui meccanismi di formazione delle catene

I meccanismi di formazione delle zone a pieghe e falde sono stati oggetto di controversia per molte decine di anni. I più importanti modelli proposti si richiamano generalmente a: 1) scivolamenti gravitativi da alti topografici; 2) espansione indotta dalla topografia (scorrimenti gravitativi) verso l’esterno, come per es. da una regione sollevata per cause termiche verso zone più esterne della catena (Elliot, 1976; 3) all’azione di spinte a tergo. Il primo gruppo di modelli non ha mai prodotto prove sull’esistenza di strutture topografiche tanto elevate da dar luogo a spostamenti dell’ordine di
grandezza osservata nelle zone orogeniche. I modelli dell’espansione gravitativa furono
molto in auge alla fine degli anni ‘70 ma i periodi di tempo intercorrenti tra la supposta formazione di un «alto termico» e la messa in posto delle falde non sono compatibili con il modello. Il modello stesso richiede infatti lo sviluppo di un nucleo metamorfico che si sollevi all’inizio della formazione della zona a falde perché esso possa funzionare come meccanismo genetico. In realtà, le aree metamorfiche interne alle zolle orogeniche risultano risalire ad un’età posteriore ai processi di sovrascorrimento prodottosi nelle zone più esterne. I modelli matematici che usano valori realistici delle proprietà reologiche della litosfera non sono in grado di dimostrare la configurazione di scorrimenti gravitativi e richiedono l’esistenza di una spinta a tergo (Chappel, 1978). Questi modelli indicano comunque che una struttura topografica elevata, sviluppatasi durante il raccorciamento, potrebbe facilitare la messa in movimento di una zona a scaglie tettoniche. Pertanto, sulla base di studi teorici e di rilievi di campagna, sembra necessaria la trasmissione di sforzi nelle zone interne perché si abbia lo sviluppo della zona orogenica. Le regioni che appaiono come i luoghi di origine di sforzi tettonici sufficientemente grandi per lo scopo sono i margini attivi di zolla (margini convergenti). Bisogna comunque osservare che, sebbene gli sforzi tettonici siano derivati da movimenti relativi e assoluti delle zolle, strutture regionali come gli assi di raccorciamento di una zona a pieghe e falde possono anche non essere direttamente dipendenti dai movimenti delle zolle.

Zone Esterne di Catena

 

Fig. 145: Fasi orogeniche principali nelle zone esterne di una catena. L’esempio è tratto dalle Montagne Rocciose canadesi (da Bally et al., 1966).

 

 

Fig. 146: Rappresentazione schematica del processo di deformazione progressiva in una zona orogenica  a falde epidermiche. Si notino le manifestazioni legate alla variazione degli orizzonti di distacco. In questo schema che riprende l’evoluzione delle Montagne Rocciose canadesi, le fascia a mattoni neri (segnate da A, B, C, D, E) rappresentano i terreni paleozoici, mentre la linea ispessita nera (numeri 1-5) simboleggia uno strato guida dei terreni mesozoici (livello a Cardium). La lunghezza A-C è uguale alla metà circa della distanza tra 1-5 dallo strato guida mesozoico. Questo implica che il settore tra 3 e 5 è stato scollato dal corpo paleozoico DE prima della formazione del piano di sovrascorrimento II.

         Il simbolo, linea a tratto con triangoli vuoti, contrassegna il sistema iniziale di piani di sovrascorrimento che si origina (intersecandolo) al top dei livelli paleozoici, a partire dell’estremità occidentale della sezione.

         Il simbolo, linea continua con triangoli pieni, contrassegna un successivo sistema di sovrascorrimenti che si origina nei punti B e C in una posizione più esterna, ma che interseca il precedente sistema di piani di distacco e coinvolge anche i terreni paleozoici.

Questa sequenza di deformazioni, osservata in pianta, mostra che la faglia più interna (II) interseca le faglie più esterne dando l’impressione, errata, che il processo di deformazione si sviluppi dall’esterno verso l’interno. Infatti la reale progressione del processo deformativo si può cogliere soltanto in sezione dove è visibile la zona in cui si originano i piani di sovrascorrimento.

 

 


Finestra 4

 

TETTONICA: descrive le                PRINCIPALI STRUTTURE

    interpreta il luogo delle   FORMAZIONE  

                        le                       STRUTTURE SUPERFICIALI della CROSTA

studio tettonico e stratigrafico devono procedere di pari passo

 

MOTORE INTERNO:  NEL MANTELLO TERRESTRE  si determinano:

            I MOTI CONVETTIVI   all’origine del trasporto  delle placche

           I MOVIMENTI PLACCHE      determinano l’AMBIENTE GEODINAMICO

            

A scala + piccola all’interno degli ambienti geodinamici

Si   GENERANO FORZE che provocano   DEFORMAZIONI della crosta terrestre

 

FORZA applicata ad un CORPO induce nello stesso un       campo di pressioni che si traduce in uno stress

 

stress:  E’ una forza applicata sull’ unita’ di superficie (s) non diretta ma conseguenza del passaggio a condizioni dinamiche differenti.

 

funzione ed ambiente geodinamico riguarda le grandi masse rocciose

 

Lo stress produce  DEFORMAZIONE  nei materiali della Crosta    (STRAIN)

quest’ultimo, quindi, corrisponde ad un’entità di modificazioni nella

FORMA   e nel VOLUME di un corpo sottoposto allo sforzo (STRESS)

 

 

DINAMICA                            studio delle forze responsabili di Eventi Tettonici

CINEMATICA                         Successione di eventi tettonici

 

 

Esempi di movimenti relativi tra 2 masse

 

DEFORMAZIONI sono funzione della  1) temperatura; 2) pressione; 3) velocita’;

4) durata dello stress; 5) pressione H2O e variazione tempo

 

Profondità, pressione e temperatura determinato la    velocità delle placche (V) considerati i caratteri meccanici (calcare fragilissimo)

 

 

 

                                                    

DEFORMAZIONE duttile  alta Temperatura e Pressione;

fragile T e P bassa

 

Taglio duttile e fragile - Discontinuità  meccanica - Variazione Petrografica = Piccoli movimenti

 

Basamento e copertura sedimentarie: UNITA’ MECCANICHE

Deformazione coinvolge LIVELLI DI SCOLLAMENTO nel basamento

Faglia: Movimento relativo fra due masse di roccia

Tetto: Blocco roccioso sopra la faglia

Letto: Blocco roccioso sotto la faglia

Rigetto: Entità di movimento relativo. Faglie normali formano un GRABEN

Sovrascorrimento: in sezione parallela al movimento FLAT-RAMP

 

 

                                                                                                     


 

 

EVOLUZIONE DEI PROCESSI TETTONICI A SCALA REGIONALE

 

1 – Nella regione inizia a modificarsi  il campo ELASTICO-STATICO grazie alla FORZA di GRAVITA’ 

 

      Si ha rilassamento dei corpi sotto l’azione della pressione citostatica. I corpi geologici sono caratterizzati da geometrie ereditate da processi ESO ed ENDOGENI

 

2 - Una nuova fase di stress si sviluppa nella regione progressivamente.

      Si sviluppa instabilità nell’area in funzione della REOLOGIA delle ROCCE: si producono rotture F. P. o scorrimento plastico e viscoso

La Regione risulta divisa da fratture: queste ultime hanno una geometria che si sviluppa in funzione della TRAIETTORIA DELLE PRINCINCIPALI DIREZIONI DI STRESS

 

3 – I Corpi litologici si muovono tendendo a produrre zone di instabilità  (zone fragili in superficie e duttili in profondità). Si viene a creare una Regione CINEMATICAMENTE INSTABILE 

4 – Nel tempo lo Stress imposto tende a diminuire e la Regione ritorna verso le condizioni di stabilità originaria. La tendenza alla deformazione diminuisce progressivamente.

      Si instaurano stati più rigidi che determinano un DIMINUIZIONE dell’azione della TETTONICA

 

Lo stato di STRESS (sforzo) precedente la formazione di faglie superficiali

superficie terra ovunque un piano di stress

se la superficie è considerata piana ed orizzontale per grandi aree si possono considerare 3 generali stati di stress sforzo

 

 

Meccanica delle rocce  - leggi governanti la deformazione, il piegamento, il fagliamento

 

Pressione idrostatica - rocce sottoposte al carico di una colonna di rocce dipende dal peso specifico e dallo spessore.

Newton unità di misura della FORZA

 

Stress idrostatico - pressione di confinamento causa variazioni elastiche di volume  da compressibilità.

 

MECCANICA DELLE ROCCE

Leggi governano deformazioni

Piegamento e Fagliamento. Applicazione forze ad un corpo induce nell’interno CORPO un campo di pressioni che si traduce in uno sforzo - STRESS

Deformazioni dovute ad azione di forze - variazioni fisiche

Forze sono soprattutto la GRAVITA’ e movimenti grandi masse.

Gravità proporzionale alla massa peso colonna ROCCIA costituisce forza che agisce su sottostanti rocce.

Forze che agiscono producono STRESS. Quantità di deformazioni causata da stress è misurata da cambiamento di FORMA e/o VOLUME.

Gravità importante modifica traiettoria stress orizzontale mov. crostali.

 

Unità di pressione (stress) è il BAR (kilobar) = 105 nw/m2

Kilobar equivale ad una colonna di 3700 m di roccia a densità 2,7

Pressione idrostatica (litostatica)  35 km = 10 kilobar

effetto pressione idrostatica P uguale per tutte le direzioni  - mantiene forma modifica volume

 

Può però avvenire che si creino condizioni per cui le rocce non vengano deformate in maniera idrostatica - variabilità della forza applicata.

Una forza F che agisce su unità di area di SUPERFICIE può essere scomposta in uno stress principale che agisce normalmente alla superficie ed un taglio che agisce parallelamente

 

La formazione di Faglie su superficie piana ed orizzontale determina originariamente 3 stati di stress principali

Inoltre si è dimostrato che lo sforzo di taglio raggiunge il suo massimo su superfici inclinate di 45° rispetto alla pressione  princ. massima nei provini  le fratture lungo  superfici che formano angoli acuti bisecati dalla direzione della pressione massima i piani di taglio si intersecano secondo rette parallele alla direzione di 62.

 

 

 

MECCANISMI DI PIEGAMENTO

1 - Piegamento parallelo semplice per COMPRESSIONE LATERALE (ellisse di deformazione nel livello piegato - Piegamento parallelo o concentrico

 

2 - Piegamento parallelo flessurale, scivolamento flessurale lungo lo strato (vari strati dislocati verso la cerniera)

 

3 - Piegamento simile per taglio (scorrimenti fitti all’interno degli strati lungo piani di taglio paralleli al piano di Piega.

 

STRUTTURE ED AMBIENTI TETTONICI COMPRESSIVI

 

Catene - Megasuture - Margini Deformati Di Placche In Collisione

 

Placche in collisione

Zone esterne                  -            Avanpaese                piegato

                                                                                 non piegato

Deformazione raggiunge i   terreni sempre più superficiali

Vergenza principale e Back Thrust.

 

CUNEO DI ACCREZIONE  - impilamento tettonico

ACCREZIONE attraverso SOVRASCORRIMENTI

 

A) VENTAGLIO EMBRICATO             frontale

                                                          a ritroso          

B) DUPLEX: un insieme di scaglie limitate al letto ed al tetto da piani di sovrascorrimento.

Piano di faglia che si SCINDE determinando: sovrascorrimento BASALE e SOMMITALE

 

 

THRUST FAULT: faglia di contrazione cartografabile

THRUST: superficie geometrica tra TETTO e LETTO schematizzata con geometria a gradini

 

SVILUPPO DEL THRUST:

1) LUNGO IL LETTO  - frontale

2) LUNGO IL TETTO - propagazione a ritroso



  07.2.4 - Strutture deformative dei sistemi di catena

Faglie inverse (sovrascorrimenti) e pieghe negli orogeni

Le faglie (thrusts) si rinvengono nei seguenti regimi tettonici:     

 Ø      Sistemi orogeni contrazionali, zone collisionali con terreni metamorfici nelle parti assiali degli orogeni e catene (a pieghe e faglie);

 Ø      Zone di subduzione (cunei di accrezione ed orogeni di tipo Andino)

 Ø      Sistemi trascorrenti transpressivi;

 Ø      Bacini invertiti (tettonica di inversione);

Le pieghe si trovano negli stessi regimi tettonici ed anche in regimi  distensivi (faglie normali con propagazione di pieghe e rollover anticlinali.

Un sistema a thrust (catena) consiste di una monoclinale regionale separata dal sovrastante cuneo di thrust o thrust imbricati attraverso una superficie di distacco (o di scollamento o “sole thrust”)

Il cuneo di thrust (spesso con geometrie di ramp-flat) appare più inclinato del piano di distacco; può essere spesso costituito da un sistema embricato combinato con un sistema a duplex. Questi sistemi si ramificano dal corpo (thrust) basale.

Il termine “thrust” si riferisce tanto al corpo limitato dalla fascia quanto la faglia stessa.

Se le rocce coinvolte sono sedimentarie la tettonica è di tipo pellicolare (thin skinned); se sono coinvolte anche rocce del basamento viene usato il termine thick skinned.

Le faglie inverse o sovrascorrimenti tagliano le successioni sedimentarie non deformate e sub orizzontali.

 

Le faglie inverse (thrust) si possono trovare raggruppate in sistemi di 2 tipi:

 1) Duplexs  limitati in alto ed in basso da due corpi deformati che si chiamano  roof e floor thrusts. In base al rapporto tra l’interspazio delle faglie e lo spostamento si possono formare duplex inclinati verso le zone esterne (avanpaese) e antiformal stack (duplex sovrapposti a formare un antiforme)

2) Cunei (o ventagli) embricati caratterizzati da assenza del roof thrust (vedi figure).

Piani di thrust e fronti delle catene sono spesso segmentati trasversalmente (al fronte).

Le faglie che collegano i thrust segmentati sono chiamate faglie di trasferimento (transfer faults) o transfer zone quando il trasferimento può essere originato da sforzo diffuso.

Lo spazio tra 2 successive faglie inverse in una catena è determinato dallo spessore dei sedimenti che vengono coinvolti nella catena al fronte di deformazione (fig. 146).

La geometria del cuneo è determinata dall’attrito lungo la superficie di distacco basale.

Piani di distacco con forte attrito sono responsabili della formazione di zone oro geniche ristrette con dislivello topografico accentuato (fig. 147).

Piani di distacco con basso attrito sono associati a catene estese e piatte.

 

Fig. 147: Nomenclatura dei thrust fault systems (modificata da TWISS & MOORES, 1992).
 

 

   

Fig. 148: Possibili geometrie 2-D di thrust faults. Il thrust può raggiungere la superficie o no (faglia cieca). Nota la geometria a gradino (ramp e flat) del piano di faglia (modificata da MCCLAY, 1992).



Fig. 148 a: In una catena a pieghe e a faglie (fold-and-thrust belt) il senso del trasporto  lungo il sovrascorrimento è generalmente verso il foreland (fore-thrusts). Per foreland (avampaese), dunque, si intende quella zona frontale verso cui la catena verge. In alcuni  sovrascorrimenti  (detti backthrusts= retroscorrimenti), tuttavia, il senso del trasporto può essere verso l’hinterland, cioè verso il nucleo della catena. La combinazione di thrusts e backthrusts determina lo sviluppo di strutture pop-up.

 

 


Fig. 148 b: Un duplex  è una particolare geometria descritta da un sovrascorrimento. Esso si scinde in due sovrascorrimenti: uno basale (floor thrust) e uno sommitale (roof thrust). I due sovrascorrimenti si riuniscono poi insieme in un flat sommitale. In funzione delle relazioni fra interspazio delle faglie (spacing) e spostamento possono svilupparsi tre differenti geometrie di duplex: hinterland dipping duplexes (spostamento < interspazio delle faglie), antiformal staks (spostamento = interspazio delle faglie) and foreland dipping duplex (spostamento > interspazio delle faglie).

 

 


Fig. 148 c: La continuità laterale dei sovrascorrimenti è generalmente interrotta da faglie, dette tear

fault. A scala regionale, i sovrascorrimenti possono essere interrotti da una singola faglia (transfer fault) o lo spostamento può essere trasferito lateralmente ad altre faglie lungo tranfer zones    (modificato da TWISS & MOORES, 1992).

 

 



Fig. 148  d: Profilo sismico ubicato nella fossa di Nankai, Giappone, mostrante il fronte attivo del prisma di accrezione associato alla zona di subduzione  di Nankai. Nota le rampe che si generano da una superficie di scollamento quasi sub-orizzontale. I fault-bend folds accomodano lo spostamento lungo i  ramp-flat (modificato da SHAW et alii 2005)


 


            Fig. 149: Schema cinematico dell’evoluzione di Tofana.

 

 


                                                                      Fig. 150


 

  


Fig. 151: Growth fold caratterizzata da una velocità di  uplift > della velocità di sedimentazione. Gli strati di crescita tipicamente si assottigliano e terminano in onlap sull’alto strutturale. Gli  strati di crescita mancano sulla cresta dell’anticlinale (modificato da SHAW et alii, 2005).

 

 

 

 

Fig. 152: Esempio di sezione sismica, mostrante il pattern della rottura di una piega (modificato da SHAW et alii,  2005).
 
 

  

Fig. 153: La Piattaforma di Trento è sovrascorsa, verso Sud-est, sul Bacino Bellunese (Prealpi Venete) lungo il Thrust di Belluno, come conseguenza della compressione sudalpina,  obliqua al margine piattaforma-bacino (Mesozoico), orientato N-S. L’effetto è un apparente spostamento destro.

  

 


Fig. 154: Relazioni fra forma del sovrascorrimento, propagazione del sovrascorrimento e sviluppo di pieghe (SUPPE, 1983; 1985). In entrambi i casi il back-limb della piega è  parallelo alla rampa del letto.

Nel  fault-bend fold nota  a) lo sviluppo di  superfici assiali A e B fisse;  b) le rocce fluiscono attraverso le due superfici e si formano le superfici assiali A’ e B’, che completano la piega; c) quando B’ raggiunge A, anche quest’ultima migra in direzione del trasporto tettonico

Nel  fault-propagation fold nota  a) dalle due superfici  assiali A e B si sviluppano  A e B’; b) A e B’ confluiscono in un solo piano assiale della piega che migra con il sovrascorrimento; c) la piega cresce in altezza


 

Fig. 155: La velocità di sollevamento delle pieghe può essere più alta (A) o più bassa (B) della subsidenza regionale dell’avampaese (foredeep). Nel primo caso (A), si svilupperanno pieghe le cui cerniere saranno topograficamente più alte  verso la catena (hinterland)   e le anticlinali appariranno fortemente erose. Nel secondo caso (B), si svilupperanno pieghe le cui cerniere saranno topograficamente più basse verso la catena (hinterland)   e le anticlinali non saranno significatamente erose  (modificato da DOGLIONI & PROSSER, 1997).

 

 

Fig. 156: Quando la velocità di sollevamento della piega è maggiore della velocità di subsidenza regionale, gli onlap degli strati sintettonici migrano allontanandosi dalla cerniera della piega, e la velocità di sedimentazione è minore del sollevamento totale della piega (A). Al contrario, gli onlap migrano verso la cerniera della piega quando la velocità di sollevamento della piega è minore  della velocità di subsidenza regionale, e la velocità di sedimentazione è più alta del sollevamento totale della piega (B).

 

 

 

Fig. 157: Classificazione geometrica bidimensionale delle faglie normali. Tale classificazione è basata sugli effetti che le faglie hanno sugli strati e sulle altre faglie.


Fig. 158: Piega di tipo chevron nella Formazione Livinallongo. Pieve di Livinallongo.

 

 

Fig. 159: I vuoti generati dai piani curvi di faglie dirette (A) in natura vengono eliminati dal piegamento del tetto e del letto con la formazione di sinformi e antiformi (B) o dall’erosione tettonica al tetto e al letto della faglia (modificata da  RAMSAY & HUBER, 1987).

 
 

 

Fig. 160: Pizzo Intermesoli, Gran Sasso, Appennino centrale. Giurassico. Esempio di tettonica transtensiva, sigillata dalla facies bacinale del Cretaceo. Tale tettonica appare preservata in una scaglia tettonica dislocata da una faglia diretta attiva ( a sinistra). Nota il sovrascorrimento, anch’esso attivo, con vergenza verso est. 

 


Fig. 161: Le faglie listriche sono caratterizzate al tetto dalla presenza di strutture note come  rollover anticline. Queste ultime sono pieghe generate da un  adattamento volumetrico delle rocce alla geometria ramp-flat di una faglia listrica.

 

 

Fig. 162: Faglia listrica sinsedimentaria. Nel tetto, gli strati di syn-rift si ispessiscono verso la faglia.

 


Fig. 163: Il  rift africano e la giunzione tripla di Afar. Nota l’organizzazione del rift in rami (il ramo occidentale e quello orientale appaiono localizzati in vicinanza del Lago Vittoria).

 


 

 

Fig. 164

 

 

Fig. 165

 


Fig. 166: L’andamento sinuoso di una faglia trascorrente può generare aree di estensione (figura in alto) e aree di compressione (figura in basso).

 

 

Fig. 167: Sezioni sismiche mostranti strutture a fiore negative (sopra) e positive (sotto). Modificate da HARDING (1983) e HARDING et alii (1983).
 
 

Fig. 168


Fig. 169


Fig. 170

 

 

 

Fig. 171:  Esempio di struttura a fiore negative relazionata alla tettonica trascorrente sinistra nel Massiccio SetteSassi (Dolomiti).

 

 


 


Fig. 172

 

 

 

Fig. 173: Evoluzione di un diapiro salino (in rosso). 1) Il carico delle formazioni sovrastanti il sale accentua irregolarità precedenti, facendo fluire il sale verso zone di minore sovraccarico; 2) si forma un cuscino di sale e la spinta verso l’alto genera delle faglie normali sulla cresta; 3) il sale continua a fluire verso l’alto, lasciando le aree laterali dove si formano delle lacune stratigrafiche di origine tettonica; 4) si forma un diapiro vero e proprio, perforante la serie stratigrafica sovrastante. Il duomo di sale può arrivare in superficie sconnettendosi con l’area sorgente (modificato da TRUSHEIM, 1960).

 

 

  

Fig. 174

Interpretazione della sezione sismica rappresentata in tempi e in profondità. Quest’ultima, la cui scala verticale è uguale a quella orizzontale, mostra i rapporti reali tra le strutture.

 

Fig. 175

 

La figura mostra la sezione geologica bilanciata e la relativa ricostruzione palispastica (sezioni al centro ed in basso) basate su un profilo sismico eseguito dall’AGIP nel settore orientale della Pianura Padana. Nella sezione bilanciata l’inclinazione della linea basale corrisponde all’immissione del basamento (pendio regionale). Interpretazione della sezione sismica (in alto) e sezione bilanciata a cura degli autori.



07.3 - BACINI PERISUTURALI: FOSSE OCEANICHE ED AVANFOSSE

I bacini perisuturali sono adiacenti alle megasuture e si sviluppano su litosfera rigida (Fig. 136). Nella nostra classificazione vengono differenziati i bacini di fossa oceanica, originati da processi di subduzione B, ed i bacini di avanfossa che sono da riferire a processi di subduzione A. Ambedue i tipi di bacini possono essere visti come depressioni omologhe sovrimposte su pendii continentali che si immergono verso e al di sotto l’area di megasutura. Nell’Asia Centrale ed in Cina dove non esistono margini di subduzione A, ma margini definiti da intrusioni felsiche meso-cenozoiche, i bacini associati vengono illustrati come bacini di tipo Cinese. Le avanfosse che non sono associate a megasuture meso-cenozoiche sono riferibili a margini di subduzione A paleozoici.



  07.3.1 - Fosse Oceaniche

L’ambiente delle fosse oceaniche è illustrato nella figura 106.

Dalla parte dell’arco vulcanico la fossa è delimitata dal complesso di accrezione che, dal punto di vista morfologico, ne costituisce il pendio interno. Dalla parte dell’oceano è delimitata dal pendio esterno che spesso si unifica con il rialzo esterno, una culminazione che giace a circa 100/200 km dall’asse della fossa oceanica (Watts e Talwani, 1974) ed è spiegata da molti autori come il risultato della flessura di una litosfera elastica cui è stato applicato un peso ad un estremo (Caldwell et al., 1976). La formazione del rialzo è comunemente accompagnata da faglie normali. A volte anche la crosta oceanica sottostante il pendio esterno può venire fagliata e scagliata (per es. Pacifico sud orientale in Kroenke, 1972; Fossa del Perù in Kulm et al., 1973).
Sui profili sismici eseguiti normalmente ad alcune fosse oceaniche si possono vedere sovente sedimenti pelagici concordanti con un fondo oceanico molto irregolare ed il basamento oceanico in subduzione estendersi al di sotto della fossa e per un certo tratto al di sotto del complesso di accrezione. Basamento oceanico e sedimenti che lo ricoprono appaiono spesso dislocati da faglie dirette. I depositi del prisma sedimentario di una fossa sono caratterizzati da strati suborizzontali (che ricoprono in onlap la successione sedimentaria di pendio esterno) e da strati deformati contro il lato interno della fossa oceanica (Von Huene, 1974; Scholl et al., 1974). Schweller e Kulm (1978) riassumendo i tipi di riempimento sedimentario delle fosse oceaniche differenziano quattro facies principali: 1) sedimenti pelagici di zolla oceanica; 2) sedimenti terrigeni di zolla; 3) prisma sedimentano di fossa oceanica; 4) depositi di conoide sottomarina.
La velocità di colmamento di una fossa risulta essere funzione dell’apporto dei sedimenti e della velocità di convergenza delle zolle. Un ridotto apporto di sedimenti (spesso determinato dal clima) e valori di velocità di convergenza delle zolle, da alta a moderata, possono portare al seppellimento della fossa oceanica sotto gigantesche conoidi sottomanne (ad es. la conoide dell’Astoria della Costa Occidentale degli Stati Uniti e la conoide del Bengala che ricopre la Fossa Indo-Burma-Andamane). Un moderato apporto di sedimenti e valori di velocità di convergenza delle zolle piuttosto ridotti portano alla formazione dei classici prismi sedimentari di fossa caratterizzati da torbide trasportate lungo canali assiali. Belle illustrazioni di profili di fosse oceaniche si trovano nel volume curato da Talwani e Pitman (1974).

La Fossa di Timor, una fra le fosse più studiate e note nella letteratura, mostra, a differenza dalla più occidentale Fossa di Giava (caratterizzata da un evidente piano di subduzione B), testimonianze di un incipiente subduzione di tipo A. Le fosse oceaniche per la loro notevole profondità non possono essere considerate aree economicamente utili per le ricerche petrolifere. 1.a conoscenza dell’evoluzione sedimentaria comunque di una certa importanza dato che le parti più elevate dei sedimenti di fossa possono essere coinvolte nei complessi di accrezione tipici di margini di subduzione B. Così, nel caso che i sedimenti coinvolti appartengano a conoidi sottomarine esiste la possibilità che si formino potenziali serbatoi nelle rocce clastiche delle scaglie embricate del complesso di accrezione.

  07.3.2 - Avanfosse
Le avanfosse sono bacini perisuturali collegabili a margini di subduzione A. Rispetto alle fosse oceaniche esse possono essere viste come depressioni omologhe sovraimposte su un pendio continentale che immerge verso le megasuture. Ambedue si ritrovano in sistemi dinamici e, col tempo, i depocentri di questi bacini migrano allontanandosi dall’asse della megasutura. I sedimenti delle fosse oceaniche si depositano direttamente su crosta oceanica, quelli delle avanfosse si sviluppano invece su successioni sedimentarie di piattaforma che a loro volta si erano depositate su crosta continentale. Nella letteratura classica i depositi iniziali di avanfossa sono comunemente rappresentati da successioni di mare profondo di tipo flysch mentre i depositi tardivi sono caratterizzati da sedimenti di tipo molassa di mare più basso. Il termine avanfossa (foredeep) così comunemente usato (v. anche Dennis, 1967) si riferisce a una depressione del basamento senza implicare alcuna connotazione morfologica e batimetrica. Noi preferiamo usare questo termine rispetto al sinonimo exogeosinclinale di Kay (1951) perché, come detto prima, siamo del parere che la vecchia terminologia della geosincinale vada abbandonata.

   07.3.2.1 - Nozione di avanfossa

Nella nozione di avanfossa prefériamo includere tanto le strutture della sottostante monoclinale (pendio regionale) quanto le aree che si estendono, in contropendenza, verso l’avanpaese (v. per uno schema di nomenclatura fig. 179). Questa classificazione differisce da quella adottata da Mc Crossan e Porter (1973) che dividono l’avanfossa, come da noi definita, in bacini cratonici con successioni poco potenti, in gran parte depositatesi durante periodi di massima trasgressione nella parte centrale del cratone e bacini epicratonici con potenti prismi sedimentari depositati lungo le scarpate dell’area centrale del cratone. I due differenti approcci riflettono la difficoltà a cui si va incontro nel definire sia i limiti tra l’avanfossa ed il bacino cratonico, sia il loro prolungamento verso le zone stabili.

Le avanfosse vengono qui divise in avanfosse impostate su pendii continentali (monoclinali regionali) con poca o nessuna traccia di tettonica sinsedimentaria nel basamento sottostante ed avanfosse impostate su di un basamento a volte fagliato.



  07.3.3 - Esempi di Avanfosse

La tipica area di avanfossa, impostata su una monoclinale regionale con basamento non deformato adiacente ad un margine di subduzione di tipo A, è la più tipica ma non è ovunque presente.  Ad esempio
ne sono sprovviste: l’area dell’Asia Centrale Sovietica che giace a nord della catena montuosa compresa tra il Pamir (Afganistan Settentrionale) ed i Monti dell’Elburz nell’Iran Settentrionale le Ande Colombiane e Venezuelane; le Montagne Rocciose Meridionali degli Stati Uniti.

Mostriamo alcuni esempi di avanfosse a scala regionale quali l’avanfossa del Canada (Fig. 174), della Molassa Alpina (Fig. 175) e di quella siciliana (Fig. 176-177).

 

Fig. 175A

 

 

Fig. 175B: Sezioni strutturali attraverso i bacini della Molassa Svizzera, Bavarese ed Austriaca ( modific. da Ziegler P.A., 1982).

 

L’avanfossa siciliana di Gela antistante la catena (vedi Introduzione alla Geologia della Sicilia)

 

 

Fig. 176



<!--[if !vml]-->

Fig. 177

 

Fig. 178 
 
 

Schema evolutivo della migrazione di un’avanfossa

 

 

MODELLI DI AVANFOSSA



Fig. A



Fig. B



Fig. 179: Deformazione della superficie di una litosfera continua viscoelastica sottoposta a carico (vista in sezione). La sezione iniziale (qui illustrata nel profilo 1) è analoga a quella di una litosfera elastica rappresentata nella precedente figura. Se il carico permane nella litosfera, al di sotto del carico applicato si ha un rilascio degli sforzi, il cui effetto risulta essere la creazione di una più profonda depressione centrale e conseguentemente di un bacino più stretto, mentre il rialzo periferico migra progressivamente avvicinandosi all’area dove è applicato il carico (profili 2 e 3). Il carico applicato è naturalmente il peso delle falde (modific. da Quinlan e Beaumont, 1984).

 

Fig. 180: Il disegno illustra in sezione (in basso) e in pianta (in alto) la deformazione iniziale in una litosfera uniforme prodotta da un carico tridimensionale applicato in superficie o intruso nel sottosuolo. Le figure non sono disegnate in scala e l’ampiezza del rialzo periferico (peripheral bulge) è stata esagerata (modific. da Quillan e Beaumont, 1984).

 

Fig. 181: La carta mostra la Catena Appenninica e quella Carpatica con le rispettive aree di avanfossa. Allo scopo di calcolare l’inflessione delbasamento sotto il peso delle catene, Royden e Karner (1984) hanno studiato i settori attraversati dalle sezioni crostali 4, 5, 6. Le linee continue o tratteggiate con triangoli pieni indicano i fronti di accavallamento miocenico-olocenici nel sottosuolo od in mare; le linee sottili a tratteggio indicano le falde pre-miocenioche più esterne nelle Alpi, nei Carpazi meridionali e nei Balcani. Le zone in grisè rappresentano bacini distensivi di retroarco del Miocene e del Pliocene, mentre le aree a puntini rappresentano le aree di avanfossa (modific. da Royden e Karner, 1984).

 

Fig. 182: Sezione schematica attraverso una tipica catena con immersione delle strutture sintetiche rispetto alla subduzione. Si assume che la litosfera dell’avanpaese o zolla inferiore si comporti come un frammento di zolla elastica che giaccia al di sopra di un’ astenosfera fluida; la terminazione attive del frammento litosferico rappresenta (v. freccia) il limite tra la parte elastica della zolla e quella parte (a sinistra della freccia) che è troppo debole per trasmettere sforzi significativi di piegamento. L’indebolimento può essere dovuto a calore, fratturazione o altri meccanismi. Il peso applicato alla zolla inferiore è la somma del peso dei materiali in superficie (in nero) e del peso dei materiali nel sottosuolo. Il carico del sottosuolo w(x) è uguale al prodotto della densità delle rocce contenute (falde e sedimenti di bacino) per l’angolo di inflessione nella zolla inferiore rispetto al livello del mare. Pertanto il peso delle unità nel sottosuolo è direttamente proporzionale all’angolo di inflessione del basamento. Conoscendo il peso dei materiali in superficie, ambedue, carico nel sottosuolo e inflessione del basamento, possono essere determinati contemporaneamente (da Royden e Karner, 1984).

  07.3.4 - Subsidenza delle Avanfosse. Modelli Genetici

Gli studi sulla subsidenza delle avanfosse sono ancora insufficienti per spiegare alcuni aspetti della loro evoluzione.  I modelli quantitativi di Bird et al. (1977) e Bird (1978) sulla subduzione di litosfera continentale non sono stati comprovati da dettagliati calcoli della subsidenza nè dai dati dell’evoluzione termica delle avanfosse. Nella fig. 174 il confronto tra la ricostruzione palinspastica (sezione in alto) del Canada Occidentale alla fine del Paleozoico e la sezione geologica attuale della stessa regione (sezione in basso) indica che la subsidenza dell’avanfossa può essere accentuata dal peso delle falde che poggiano sul prolungamento, parallelo all’immersione, del substrato regionale dell’avanfossa. L’angolo di inclinazione di questo pendio regionale, nel caso in questione, è stato determinato con accuratezza per mezzo dei profili sismici a riIlessione. Da notare che la zona di cerniera del basamento si è spostata con il tempo mantenendo la configurazione di avanfossa migrante.
Price (1973) fu il primo a proporre che la formazione e la geometria dei bacini di avanfossa adiacenti a zone di catena potessero essere anche il risultato dell’ inflessione dell’avanpaese. Il peso delle falde costituenti una catena viene così equilibrato dalla flessione e dalla subsidenza dell’avanpaese. Questa ipotesi offriva la possibilità di collegare geneticamente la messa in posto delle falde durante l’orogenesi e il contemporaneo sviluppo delle avanfosse in aree esterne della catena. Price sostenne che la larghezza e la profondità di un bacino di avanfossa erano funzione della dimensione e della forma del carico (falde e sedimenti dell’avanfossa) e dei parametri che determinavano il modo di flettersi della litosfera dell’avanpaese (ad es. lo spessore reale della zolla). Il peso imposto dalle falde e dai sedimenti contenuti nell’avanfossa dovrebbe quindi essere sufficiente a produrre la flessura osservata nell’avanpaese al di sotto del bacino di avanfossa. Questi concetti hanno costituito il punto di partenza di molti dei più recenti studi sulla subsidenza (subsidenza tettonica) nelle aree di avanfossa (Beaumont, 1978, 1981; Roeder, 1980; Watts et al., 1980;Turcotte e Schubert, 1982; Royden e Kamer, 1984).

Le recenti pubblicazioni di Beaumont (1981) e di Beaumont et al. (1982) spiegano (con un modello che appare abbastanza soddisfacente) la subsidenza tettonica delle avanfosse (da Beaumont chiamate bacini di avanpaese) come il risultato di una flessura della litosfera sotto il peso sopracrostale delle adiacenti catene montuose. Beaumont oppone ai modelli che assumono una litosfera elastica uniforme modelli che assumono come punto di partenza un livello viscoelastico sostenuto da un fluido non viscoso. Mentre i modelli di una terra elastica mantengono costante la larghezza del bacino quelli di una terra viscoelastica prevedono, in corrispondenza ad un rilascio delle tensioni, la creazione di una più profonda depressione e conseguentemente di un bacino più stretto e di una zona di rialzo periferico (peripheral bulge) che si solleva progressivamente migrando verso l’area dove è situato il carico (cioè verso la zona di catena). Questo evento si ripete ogni qual volta si abbiano nuovi sovrascorrimenti. Va precisato che soltanto per il Canada Occidentale, il Wyoming ed alcune parti degli Appalachi e delle Alpi vi sono sezioni sismiche a riflessione che permettono realmente l’osservazione della tipica rampa di basamento (o pendio regionale) che s’inflette al di sotto sia dell’avanfossa sia dell’adiacente catena a pieghe e falde. I dati di sismica a riflessione più numerosi provengono dal Canada Occidentale ed insieme a quelli di superficie e del sottosuolo (Price, 1981) costituiscono i dati su cui si basa l’interpretazione di Beaumont (Fig. 179-182).

Recentemente Karner e Watts (1983), basandosi sul fatto che taluni bacini di avanfossa si sono preservati anche dopo che le adiacenti catene montuose sono state fortemente ridimensionate dall’erosione, hanno sostenuto l’ipotesi che un peso ulteriore, oltre a quello delle falde, deve agire sulla litosfera che s’immerge al di sotto della catena. Questa ipotesi potrebbe essere comprovata esaminando catene orogeniche attive o molto recenti nelle quali si sia conservata l’originale topografia e distribuzione delle strutture e sia ben nota la giacitura dei sedimenti all’interno dell’avanfossa. Una verifica di questa ipotesi è stata eseguita da Royden e Karner (1984) che hanno scelto come esempi di studio la catena Appenninica e quella Carpatica. L’avanfossa pliocenica dell’Appennino e quella tardo-miocenica dei Carpazi Orientali sono considerate delle tipiche avanfosse che si formarono contemporaneamente ai sovrascommenti nelle adiacenti catene montuose. Gli autori, per calcolare l’inflessione verso il basso del pendio monoclinalico regionale al di sotto delle avanfosse dell’Appennino e dei Carpazi Orientali esterni, hanno usato un modello semplice nel quale si assume che la litosfera dell’avanpaese (o zolla che sottoscorre) si comporti come una zolla elastica sovrastante un fluido astenosferico. Il confronto tra le profondità del basamento calcolate con il modello e quelle osservate ha rivelato che il peso rappresentato dalle falde e dai sedimenti delle avanfosse appenninica e carpatica è insufficiente a produrre l’inflessione realmente misurata del basamento continentale al di sotto dell’avanfossa. Secondo gli autori questo risultato implicherebbe l’esistenza di un peso addizionale che agisca in profondità aiutando a mantenere l’inflessione del basamento che s’immerge al di sotto dell’avanfossa. Ma se è vero che in questi due specifici casi il carico sembra risultare insufficiente a determinare la corrispondente avanfossa, è anche vero che i dati provenienti dalle indagini nell’area della catena Himalayana e del bacino del Gange (Kamer e Watts, 1983) e nell’area delle Ande indicano che in dette zone il solo carico delle falde e dei sedimenti è sufficiente per determinare l’inflessione del sottostante basamento.
In conclusione, data l’insufficienza dei dati e l’incompletezza dei modelli, è lecito porsi la domanda se il peso delle falde e il riempimento sedimentario di una iniziale depressione marginale può essere sufficiente a spiegare la subsidenza di un’avanfossa. Ci sono motivi per sospettare che oltre ai precedenti fattori possano giocare un ruolo importante altri meccanismi. Laubscher (1976, 1978) richiama l’attenzione sul paradosso dell’esistenza nella catena Alpina di faglie dirette (subparallele alla direzione regionale della catena) contemporanee a strutture compressive che si sviluppano nella zona di avanfossa. Come detto prima gli stessi fenomeni sono stati notati nell’avanfossa della catena Ouachita-Marathon. Ulteriori aspetti debbono perciò essere presi in considerazione nel preparare i modelli dei bacini di avanfossa. Poco si sa ad esempio dell’esistenza di frequenti superfici di discordanza a livello interregionale che precedettero la fase iniziale delle avanfosse. Le discordanze suggerirebbero infatti un’estesa flessura della litosfera continentale in una fase che precede la formazione dell’avanfossa vera e propria.



  07.3.5 - I Bacini di Foreland: caratteri generali ed evoluzione sedimentaria nella moderna interpretazione

I Bacini di Foreland, (termine introdotto formalmente da Dickinson nel 1974) sono definiti come “bacini sedimentari interposti tra la porzione frontale di una catena montuosa in fase di costruzione ed un area cratonica stabile, non deformata” (Dickinson,1974, Allen, Homewood,& Williams, 1986; Jordan, 1995) (Fig. 183a). Il termine Bacino di Foreland, identifica in senso ampio bacini sedimentari che occupano una vasta ed articolata area di sedimentazione suddivisibile in diversi contesti deposizionali e strutturali (es. avanfossa s.s. o foredeep Aubouin, 1965, bacini di piggyback ecc.).

Lo stesso Dickinson (1974) distingue bacini di forelandperiferici” posti in posizione frontale alla catena attiva e bacini di foreland di tipo “retroarco” che si formano sulla zolla in sovrascorrimento in associazione ad un fronte antitetico rispetto alla direzione di subduzione (vedasi anche Bally & Snelson, 1980; Mitrovica et al., 1989; Royden, 1983; Allen, 1986; Miall, 1995; Catuneanu, 2004) (Fig. 183b). Le differenze esistenti dal punto di vista geodinamico tra bacini di foreland “perfiferici” e “retroarco” sono state tracciate da vari autori tra cui Doglioni (1993, 1999),  Royden (1993), Jordan (1995).

In riferimento alla classificazione di Bally & Snelson (1980) e Bally, Catalano, Oldow (1985) i Bacini di Foreland rientrano nella classe dei bacini “perisuturali” posti su litosfera continentale, associati a zone di deformazione compressiva e/o alla formazione di aree di megasutura.  

La genesi dei bacini di foreland viene generalmente imputata a meccanismi di subsidenza flessurale guidati dal carico dovuto alla messa in posto delle unità tettoniche. Durante la convergenza tra le placche, il carico verticale esercitato dall’orogene in costruzione migra verso la zona di avampaese, insistendo progressivamente su porzioni sempre più esterne della placca in subduzione. Questo processo produce la migrazione, verso l’esterno, del bacino di foreland associato alla catena (Bally, Gordy & Steward, 1966; Price, 1973; Dickinson, 1974; Beaumont, 1981, 1989, 1993; Jordan, 1981, 1995; Sinclair & Allen 1992; Giles & Dickinson, 1995) (Fig. 183c). Royden & Kerner (1984) hanno mostrato nella catena Appenninica e nei Carpazi che tale meccanismo, da solo, non è sempre sufficiente a spiegare gli spessori (fino a 8 km) dei sedimenti che riempiono le “avanfosse” associate a questi due orogeni. L’ipotesi che un bacino di foreland si sviluppi da un semplice sistema convergente, mediante la sovrapposizione di successivi sovrascorrimenti è stata quindi sostituita da modelli più complessi che tengono conto dell’interazione di molteplici variabili. Entrare nel dettaglio di quali ed in che modo queste variabili regolino lo sviluppo di un bacino di foreland esula dagli obiettivi di questa tesi si rimanda quindi agli autori di riferimento (Karner & Watts, 1983; Stockman & Beaumont, 1987; Lyon-Caen & Molnar, 1989; Royden, 1993).

L’evoluzione di un bacino di foreland attraversa in genere tre fasi principali scandite dalla evoluzione dell’orogene (vedasi Covey, 1986).

1) La prima fase registra lo sviluppo dei primi sovrascorrimenti e l’inizio della subsidenza flessurale. In questo stadio i bacini di foreland sono sottoalimentati ed il loro margine esterno è caratterizzato da un progressivo approfondimento.

2) Durante la fase di accrezione (accretionary wedge phase di Sinclair & Allen, 1992) il bacino di foreland è affiancato da un edificio tettonico, per lo più sommerso, caratterizzato da movimenti che si esplicano per lo più lungo l’orizzontale.

Il bacino in questa fase è alimentato da sedimenti a granulometria fine, spesso torbiditici, che si accumulano in un ambiente deposizionale marino “profondo”; il tasso di subsidenza eccede il tasso di apporto sedimentario. I sedimenti che alimentano il bacino provengono da aree sorgente extra-orogenetiche (es. Marnoso-Arenacea dell’Appennino settentrionale). Questa fase è anche nota con il nome di Flysch Stage (Hsu, 1970; Allen, Homewood & Williams, 1986; Ricci Lucchi, 1986).

3) Durante la fase continentale (continental wedge phase di Sinclair & Allen, 1992), l’edificio tettonico in parte in posizione subaerea, diventa il principale fornitore di sedimenti. I movimenti all’interno dell’orogene sono in gran parte verticali; il tasso di sedimentazione eccede il tasso di subsidenza nell’antistante bacino di foreland che a sua volta viene “colmato” da depositi di mare basso, fluvio-deltizi ed alluvionali (es. Siwaliks Group hymalayano e freshwater Molasse alpina). Quest’ultima fase è nota anche come “stadio della Molassa” (Molasse Stage Bally et al. 1985; Allen, Homewood & Williams, 1986 pp. 10-11, Ricci Lucchi, 1986, pp109) (Fig. 183d).

L’utilizzo dei termini “Flysch” (Hsu, 1970) e “Molassa” (Bertrand, 1897), in questi ultimi anni, ha suscitato molta confusione nella descrizione dei depositi di bacino di foreland, in gran parte perché questi termini sono stati utilizzati indistintamente per identificare le litofacies (Mitchell & Reading, 1986) e le tectofacies (es. in Ricci Lucchi, 1986). Per una più ampia discussione su questa problematica si rimanda ad Houten (1974), Mitchell & Reading (1986) e Ricci Lucchi (1986).

Nella letteratura specifica, all’interno di un bacino di foreland sono stati distinti alcuni principali contesti tettono-deposizionali, di seguito descritti:

 1)                 il bacino di Avanfossa s.s. (foredeep): un bacino sedimentario ubicato davanti e parzialmente al di sotto alla porzione frontale di una catena attiva. Un bacino di questo tipo è generalmete caratterizzato (in sezione) da un profilo cuneiforme che si assottiglia allontanandosi dalla catena e spesso rappresenta un area di grande subsidenza;

 2)                  bacini di thrust-top, piggyback o wedge-top: con questi termini sono indicati i bacini sedimentari posti sul dorso di unità tettoniche limitate alla base da piani di sovrascorrimento e/o al di sopra del cuneo orogenetico (Ori & Friend, 1984; Bally et al., 1985; Allen, Homewood & Williams, 1986; Allen & Allen, 1990; De Celles & Giles, 1996; Mutti et al., 2003). La formazione di questi bacini è legata alla deformazione dell’originario bacino di avanfossa a causa della migrazione del fronte della catena (Fig. 183e);

 3)                  bacini di hinterland o intramontani: sono bacini sedimentari che si sviluppano in risposta a stress di tipo estensionale (di rilascio) nei settori interni della catena; i sedimenti deposti in questi bacini sedimentari vengono detti “post-orogenici” e sono coevi dei sedimenti “sin-orogenici” che si depongono nelle zone frontali della catena (Ricci Lucchi et al, 1981; Ricci Lucchi, 1986; Amorosi et al., 2002).

Una nuova configurazione del Foreland Basin deriva dal concetto di Foreland Basin System FBS (De Celles & Giles, 1996) (Fig. 183f).

Il Foreland Basin System è definito come “una regione allungata con elevato potenziale di accomodamento di sedimenti, ubicata tra un orogene in fase di costruzione ed un’area cratonica indeformata,formatasi in risposta a meccanismi geodinamici legati alla formazione delle catene montuose ed ai sistemi di subduzione ad esse associate”.

Una delle principali differenze rispetto al concetto classico di bacino di foreland (Jordan, 1995) è che il foreland basin system tiene conto delle aree di sedimentazione poste oltre (fino a centinaia di chilometri) la zona di massima subsidenza (generalmente corrispondente alla parte assiale dell’avanfossa s.s.). Considerando queste aree di accumulo come parte del bacino di foreland la classica geometria a cuneo ispessito verso il fronte della catena, modellizzata per il riempimento sedimentario di un’avanfossa classica, viene sostituita da un cuneo sedimentario che si restringe sia in direzione dell’orogene tanto quanto in direzione del cratone indeformato.

Utilizzando il modello di FBS è possibile considerare parte del bacino di foreland anche aree deposizionali che altrimenti verrebbero escluse  (es. i bacini posti sull’orogene o i bacini post oltre il rialzo periferico) e che invece giocano un ruolo importante nell’interpretazione dell’evoluzione del sistema catena-avanfossa.

In un FBS è possibile distinguere quattro zone deposizionali “depozones”; l’appartenenza di un roccia e/o successione sedimentaria ad una di queste zone deposizionali dipende dalla originaria posizione in cui è avvenuta la sedimentazione. Una particella conserva la firma sedimentaria della zona deposizionale in cui è stata deposta, ma può essere incorporata in un’altra zona deposizionale in risposta alla migrazione del cuneo orogenetico (Fig. 183g).

Muovendosi dall’interno verso l’esterno attraverso un FBS, è possibile distinguere:

- zona deposizionale ubicata sopra il cuneo orogenetico (wedge-top depozone): costituita dall’insieme dei sedimenti accumulati sul dorso della porzione frontale del cuneo orogenetico. Questa zona include bacini di piggyback e/o thrust-top (Ori & Friend, 1984), “satellite” (Ricci Lucchi, 1986), wedge-top (Mutti et al., 2003), riempimenti di larghi canyon distributori nelle zone interne del edificio tettonico (Vincent & Elliot, 1995; Coney et al., 1995), depositi associati a locali backthrust o a sovrascorrimenti fuori sequenza (Burbank et al., 1992; De Celles, 1994) e depositi appartenenti a sistemi di drenaggio regionali antecedenti alle più recenti strutture ed alla topografia rinvenibili verso il bacino (Schmitt & Steidtmann, 1990). In ambiente subaereo la wedge-top depozone ospita la porzione più grossolana dei depositi del bacino di foreland. E’ caratterizzata in particolare da litofacies alluvionali, fluviali o lacustri; in ambiente subacqueo i depositi di wedge-top sono rappresentati da sedimenti di mare sottile di piattaforma continentale. La composizione dei sedimenti che si accumulano all’interno della wedge-top depozone riflette tipicamente le rocce erose a causa del sollevamento delle unità tettoniche.

L’accumulo dei sedimenti all’interno di questa zona deposizionale è il risultato netto della competizione tra subsidenza da carico regionale e sollevamento regionale e locale del cuneo orogenetico dovuto per ispessimento crostale o rebound isostatico. In aggiunta l’accumulo locale di depositi può essere indotto dal sollevamento locale di strutture tettoniche.

Altri caratteri distintivi dei depositi di wedge-top sono: la presenza diffusa di unconformities locali e regionali, l’immaturità tessiturale e composizionale dei sedimenti e la presenza di geometrie di crescita (Beaumont, 1981; Jordan, 1981; Peper et al., 1995). L’inclusione della wedge-top depozone nella definizione di FBS richiede la costruzione di un modello stratigrafico caratterizzato da un prisma sedimentario che si assottiglia  (in sezione trasversale) sia verso l’esterno che verso l’interno del sistema, piuttosto che il tipico cuneo sedimentario asimmetrico.

- la zona deposizionale di avanfossa s.s. (foredeep depozone): è rappresentata dall’insieme dei sedimenti accumulati nella porzione frontale del cuneo orogenetico. Questa zona deposizionale è occupata da un cuneo di sedimenti (spesso tra 2 e 8 Km) che si accumulano in condizioni sub-aeree (sistemi fluviali ed alluvionali) e sub-acquee da relativamente di mare basso (sedimenti deltizi o di piattaforma) fino a condizioni di mare relativamente profondo (sedimenti torbiditici).

- la zona deposizionale posta davanti al rialzo periferico (forebulge depozone): occupa una zona spesso caratterizzata da inarcamento di tipo flessurale, che si verificano lungo il margine esterno del bacino di avanfossa. Per questi motivi questo settore è considerato generalmente una zona di non deposizione o di erosione, caratterizzata da numerose superfici di discordanza e discontinuità. La migrazione nel tempo di queste ultime può essere utilizzata per tracciare la posizione del forebulge durante l’evoluzione del sistema orogenetico (Bosellini, 1989; Fleming & Jordan, 1990; Plint et al., 1993).

- la zona deposizionale posta sul retro del rialzo periferico (backbulge depozone): è rappresentata dall’insieme dei sedimenti accumulati tra il forebulge ed il cratone indeformato. In condizioni subacquee i sedimenti che si depongono in questa zona sono  generalmente di mare basso (Ben Avraham & Emery, 1973; Holt & Stern, 1994).

 

Fig. 183a - Rappresentazione schematica di un Bacino di Foreland (da Jordan, 1995)

 

Fig. 183b - Bacini di Foreland di tipo “perfiferico” e “retroarco” (mod. da Mitrovica et al., 1989; Royden 1993; Catuneanu, 2004)

 

Fig. 183c - Migrazione del bacino di avanfossa indotta dal carico della catena in costruzione (da Beaumont, 1989, 1993)

 

 

Fig. 183d -  Fasi evolutive di un bacino di foreland e dell’orogene ad esso associato (mod. da Sinclair & Allen, 1992)


 

<!

  Fig. 183e. - Caratteristiche di un bacino di tipo piggyback (mod. da Ori & Friend, 1984)

 

 

 

  Fig. 183f - Ubicazione delle differenti depozones all’interno del modello di Foreland Basin System (mod.

  da De Celles & Giles, 1996).

 

 

Fig. 183g. - Variazione della depozone occupata da una particella in risposta alla migrazione del Foreland Basin System (mod. da De Celles & Giles, 1996). 


07.4 - BACINI EPISUTURALI

I bacini episuturali localizzati su megasuture, a causa delle loro ridotte dimensioni, risultano difficili da rappresentare su carte a scala piane- tana. La formazione di molti di questi bacini è intimamente legata ai processi di subduzione (sia di tipo B che di tipo A) ed alla formazione di mari marginali su margini attivi (Karig, 1971, 1974; Packham e Falvey, 1970). I margini attivi attuali sono caratterizzati da un’alta frequenza di importanti terremoti e da un’intensa attività vulcanica che si presume venga causata da magmi idrati toleitici, saturi in silice (Ringwood, 1977), formatisi nelle adiacenze della zona di Benioff a profondità di circa 80- 150 km. Il frazionamento di questi magmi porta alla formazione di grossi corpi intrusivi ed effusivi basaltici o basaltico-andesitici. La successiva erosione di queste rocce fornisce i materiali che vanno a costituire le grovacche e le sequenze vulcanoclastiche. I bacini episuturali hanno vita breve perché tendono ad essere coinvolti nel processo orogenico che segue immediatamente la loro formazione; ne consegue che il numero degli antichi bacini episuturali integri è piuttosto esiguo.

Tra gli esempi di età mesozoica vanno ricordati: il Bacino di Sacramento-
-San Joaquin, il Bacino di Sungliao e il Bacino del Golfo di Poai in Cina; tra i bacini di età paleozoica vanno ricordati quello del Golfo del San Lorenzo ed il Bacino di Sidney in Australia.



  07.4.1 - Bacini episuturali associati a subduzione b
La genesi dei bacini che si formano nei margini attivi è stata discussa da Karig (1971, 1974); inoltre sintesi recenti sono state pubblicate da Seely e Dickinson (1977), Toksoz e Bird (1977) e Poehls (1 978). Il modello concettuale generale e le relative terminologie vengono illustrate nella fig. 136 che rappresenta uno schema composito basato sulle concezioni di vari Autori.

   07.4.1.1 - Bacini di avanarco
Questo tipo di bacino è stato definito da Seely e Dickinson (1 977) e la relativa nomenclatura viene riportata nelle figg. 71 e 136. Molti tra i più recenti lavori si sono soffermati sulla formazione dei bacini di avanarco (Auboin et al., 1982; Von Huene et ai., 1982; Lundberg, 1983). Hayes (1980) ha edito un volume con una dettagliata documentazione sull’evoluzione dei mari marginali dell’Asia Sud-orientale; questi bacini sono da collegare alla formazione di un complesso di subduzione.
Poiché il processo di subduzione viene spesso iniziato all’interno delle zolle oceaniche, è possibile, secondo Seely e Dickinson (1977), che si possa trovare crosta oceanica al di sotto dei bacini di avanarco. 11 fianco interno dei bacini di avanarco è sovrapposto (con i suoi sedimenti in oniap) sul massiccio dell’arco (fig. 136); il fianco esterno (che guarda verso l’oceano) viene invece progressivamente inclinato e reso più ripido man mano che si va accrescendo la sottostante struttura ad embrici che costituisce il complesso di accrezione (v. l’esempio della Piattaforma delle isole Kodiak, fig. l37a, b). In prima approssimazione sembra che la subsidenza dei bacini di avanarco sia soprattutto una reazione tettonica nel quadro del regime di compressione cui è sottoposta l’intera regione di avanarco; in realtà, possono anche entrare in gioco fenomeni gravitativi (v. ad es. la sezione dell’offshore della Colombia di fig. 1 9a). Faglie listriche con «crescita» e olistostromi si rinvengono frequentemente nelle regioni di avanarco e lungo i loro pendii instabili; faglie di distensione sono invece dominanti nelle regioni di avanarco delle Marianne (Hussong e Uyeda, 1978, 1982).


   07.4.1.2 - Bacini di retroarco su crosta oceanica (circum Pacifici)

Le varie ipotesi di formazione dei bacini di retroarco (o intra-arco) sono state .esaminate da Poehls (1978). Secondo alcuni modelli il processo di subduzione di una zolla svilupperebbe calore di frizione che causerebbe un miscelamento del materiale del mantello seguito da una risalita del magma e dalla formazione di una corrente convettiva secondaria dietro l’arco insulare (v. Hasebe al., 1970 e la discussione in Sugimura e Uyeda, 1973). In altri modelli dinamici (Toksoz e Bird, 1977) si assume che la zolla di litosfera oceanica fredda in subduzione induca una circolazione convettiva nel cuneo di mantello soprastante la zolla litosferica discendente (fig. 71). Gli autori postulano un modello che prevede un intervallo di tempo da 20 a 40 MA tra l’inizio della fase di subduzione e l’instaurarsi di un processo secondario di espansione nella zona di retroarco. Il modello è in accordo con il graduale riscaldamento e assottigliamento della zolla superiore. Poehls (1978) osserva che i bacini attivi di retroarco possono formarsi soltanto dove una zolla sub- dotta può interagire con una zolla sovrastante nella zona di retroarco. Questa situazione si realizzerebbe dove le fosse oceaniche sono interrotte o dislocate da faglie trascorrenti e dove si registrano grandi variazioni del tasso di subduzione. Conseguentemente nel bacino di retroarco si forma un regime tensivo che è dovuto alla coppia di taglio di una faglia trasforme che separa le due zolle adiacenti. In contrasto con le ipotesi prima enunciate e seguendo Wilson e Burke (1972), Molnar e Atwater (1978) non vedono alcun rapporto dinamico diretto tra la subduzione e la formazione di bacini di retroarco. Essi sostengono che l’espansione non si verifica dietro tutti gli archi e che la subduzione di una zolla può non rappresentare una forza effettiva nel processo di apertura di un bacino intra-arco o di retroarco. La fase di espansione nell’area dell’arco sarebbe comune nelle situazioni in cui la zolla oceanica in subduzione abbia una crosta più antica di 50-100 milioni di anni, mentre nei casi di subduzione di una zolla oceanica più recente si avrebbe formazione di catene montuose di tipo cordigliera. In conclusione i fondi dei bacini marginali si formerebbero per processi di distensione ed espansione perché la litosfera oceanica antica, più pesante, viene spinta verso il basso più velocemente di quanto le zolle adiacenti possano avvicinarsi. L’espansione di interarco, secondo Moinar e Atwater (1978), inizierebbe preferibilmente lungo una zona di debolezza preesistente come ad esempio gli archi vulcanici.
I bacini di retroarco impostati su crosta oceanica e collegati a subduzione di tipo B sono stati classificati da Toksoz e Bird (1977) in: 1) bacini attivi in espansione con valori elevati di flusso di calore (Bacino delle Marianne, Bacino di Lau Havre, Mare di Scozia; 2) bacini inattivi con alto flusso di calore (Figi Meridionali, Mare delle Filippine Occidentali, Mare del Giappone, fig. 139); 3) bacini inattivi maturi con normali valori di flusso di calore (Plateau delle Figi, Mare di Okhotsk, Bacino di Parece-vela); 4) bacini parzialmente sviluppati in cui, al basamento oceanico «catturato» che non ha ancora raggiunto la fase di espansione, segue la formazione di un arco di isole (Mar di Bering Orientale, forse Mar dei Caraibi). Questi bacini contengono raramente sedimenti di notevole spessore. Tra i criteri di riconoscimento di relitti di antichi bacini marginali vanno ricordati quelli basati sulla presenza di abbondanti depositi vulcanoclastici e/o l’esistenza di sedimenti di mare profondo (Karig et al., 1975; Churkin, 1974b; Hussong e Uyeda, 1978).



   07.4.1.3 - Bacini di retroarco su crosta continentale o di transizione

I bacini di retroarco che si sviluppano su crosta continentale o intermedia collegata a subduzione B (3.1.2.2) possono essere considerati come i precursori, temporaneamente o definitivamente abortiti, di mari marginali di tipo bacino di retroarco. Questi bacini, ancora poco studiati ma ricchi di idrocarburi, sono per lo più confinati in aree di mare basso e contengono generalmente potenti successioni sedimentarie; al di sotto di essi è stata spesso individuata un’originaria successione di rift; la massiccia subsidenza dei bacini sarebbe legata al raffreddamento della sottostante litosfera continentale presumibilmente riscaldata in precedenza. Gran parte dei bacini marginali di mare basso del Pacifico Occidentale (tra cui quelli produttivi, dal punto di vista degli idrocarburi, di Sumatra e di Giava) sono da considerare come bacini di retroarco. Essi sono generalmente delle depressioni allungate collocate in un’area tra l’arco vulcanico ed il cratone e giacciono su di un basamento (che immerge verso l’oceano) costituito da rocce ignee e metamorfiche (formatesi durante la fase iniziale della costruzione dell’arco vulcanico (Katili, 1975; Ketner et al., 1976). Nel Pacifico occidentale ad es., la fase di rifting associata a questo tipo di bacino si sviluppò nell’intervallo Paleogene-Neogene inferiore; la soprastante sequenza, successiva al raffreddamento, si depositò nel Neogene superiore. I dati di flusso di calore sono disomogenei, passando da valori alti a valori normali. Poche descrizioni dettagliate di questi bacini sono state fino ad oggi pubblicate (Todd e Pulunggono, 1971; Pulunggono, 1976; Hamilton, 1978; Ben-Avraham ed Emery, 1973; Wageman et al., 1970).



   07.4.1.4 - Altri bacini di retroarco

In una fase continua di distensione la crosta continentale sottostante il bacino di retroarco può aprirsi per formare segmenti oceanici; sarebbe il caso del Mare Egeo dove affiorano blocchi continentali di età pre-neogenica collocati su di una crosta oceanica. McKenzie (l978a) postula che la crosta continentale, che originariamente costituiva l’Egeo, fu fortemente assottigliata offrendo così una spiegazione dell’alto flusso di calore nell’area e delle basse velocità del mantello superiore. Una origine simile è stata indicata per il Mare Tirreno (Ogniben et al., 1975). I bacini della Cina Orientale coi loro sub-bacini Sungliao, Bohai, Nan -Tsia e Jingghan presentano tutte le caratteristiche dei bacini di retroarco, sono associati a sistemi di megafaglie (Mali et al., 1982 e Guanaming et al., 1982), giacciono su crosta assottigliata, sono limitati da due grandiosi sistemi di taglio e sono riempiti da depositi vulcanici e fluviali. Alcuni bacini di retro- arco sono interessati da intensi processi orogenetici sul loro lato interno. Le strutture a pieghe e falde sono spesso associate a faglie trascorrenti di importanza regionale che si svilupparono contemporaneamente al (o seguirono il) piegamento (ad es. nell’area di Sumatra, Posaveck et al., 1973, figg. 140, 141). La vergenza delle pieghe verso il bacino marginale potrebbe corrispondere ad una chiusura (avvenuta successivamente) dovuta a subduzione del bacino marginale stesso. Questa tardiva subduzione dei mari marginali e le relative deformazioni dei sedimenti possono essere interrotte per alcuni periodi durante i quali il processo di subduzione cesserebbe del tutto. Durante questa fase si può avere un sollevamento della zona piegata ed il seppellimento delle porzioni frontali sotto spessi cunei di sedimenti clastici deltizi. Sappiamo molto poco sulla dinamica dei processi che producono la scomparsa dei bacini marginali. La conoscenza di questi fenomeni diventa però determinante per la comprensione dei processi di formazione delle catene. Dati geologici utili a spiegare la chiusura dei bacini marginali sono stati presentati recentemente da Churckin (1974) e Churckin e Eberlein (1977) per la Cordigliera Occidentale, da Scheibner (1976) per le Tasmanidi paleozoiche dell’Australia e da Biq (1976) per le catene di Taiwan.



   07.4.1.5 - Bacini di retroarco associati a collisione continentale
Un altro gruppo di bacini di retroarco è invece associato alla fase di collisione continentale. Questi bacini che si impostano su crosta continentale assottigliata, ed a volte su di un centro di espansione oceanica, sono caratterizzati da alti valori di flusso di calore e da tettonica distensiva con predominanza di faglie listriche e si trovano all’interno delle più importanti zone trascorrenti «intramontane». Uno degli esempi più noti di collisione è quello tra la Penisola Araba ed il Continente Europeo che causò la formazione delle Catene Alpino-Mediterranee (Argand, 1924; Dewey et al., 1973; Biju Duval et al., 1976, 1977). Durante e dopo la fase tardiva di questa collisione, si formarono numerosi bacini distensivi nel tardo Paleogene-Neogene all’interno degli archi di subduzione A. In alcuni bacini la fase di distensione non progredì tanto da permettere l’apertura di un bacino oceanico (bacini di tipo Pannonico, tipo 3.2.1), in altri invece la fase distensiva portò alla formazione di un sottostante centro di «oceanizzazione» (bacini di tipo Mediterraneo Occidentale).

   07.4.1.6 - Bacini di tipo Pannonico

I bacini di retroarco in regime di distensione del Mediterraneo Orientale (Bacino Transilvanico, Bacino Pannonico, Bacino di Vienna) si sono originati nello stesso tempo. Il Bacino Pannonico, compreso tra i Carpazi, le Dinaridi e le Alpi, è sovrimposto alla Megasutura Alpina che si formò in seguito alla collisione tra il Promontorio Africano (Argand, 1924; D’Argenio et al., 1980) e la Zolla Europea. Al completamento di questa collisione continentale iniziata nel Cretaceo e sviluppatasi fino al tardo Terziario seguì la formazione di un bacino di retroarco. Molti autori hanno recentemente descritto e discusso questo tipo di bacino (Bleahu et al., 1973; Boccaletti et al., 1976; Horwath et al., 1975; Horwath e Stegena, 1977; Kutas et al., 1970, 1975). Gran parte della geologia di dettaglio è riassunta nei lavori di Paraschiv (1975) e Mahel (1974). La carta strutturale di fig. 142 illustra i sovrascorrimenti e le pieghe formatisi in un regime di subduzione A, durante il Neogene e la subsidenza simultanea di una avanfossa sul margine periferico esterno dei Carpazi.
Sollogub et al. (1973) hanno dimostrato che il Bacino Pannonico giace al di sopra di una crosta assottigliata (fig. 142) ed altri Autori hanno provato l’esistenza di alti valori del flusso di calore nel bacino. La successione sedimentaria che inizia con depositi di età tardo-paleogenica è dissezionata da faglie a gradinata che testimonierebbero di un evento termico sub-litosferico. I successivi sedimenti neogenici risultano poco dislocati e depositati in un’area la cui subsidenza viene collegata al raffreddamento litosferico. Quest’ultima ipotesi è in contrasto con gli alti flussi di calore misurati ancora oggi nel Bacino Pannonico. Un’analisi dettagliata sull’origine del Bacino Pannonico è stata recentemente eseguita da Royden et al. (1983a, b) che hanno sostenuto che i singoli bacini distensivi del medio e tardo Neogene sono connessi con un sistema di megafaglie coniugate dipendenti da faglie sinistre a direzione nord-est e destre a direzione nord -ovest Queste zone di taglio sono coeve e connesse con i sovrascorrimenti dell’Arco Carpatico esterno. La fase di distensione del bacino non sarebbe sincrona: Royden et al., (1983) differenziano tre episodi di distensione, tutti compresi nel Miocene medio-superiore, con un progressivo spostamento verso ovest della distensione cui ha corrisposto una migrazione verso est del fronte delle falde. Pertanto i bacini della regione Pannonica, nel loro insieme, farebbero parte di un sistema collegato di faglie, con tettonica distensiva di modesta profondità, nel Bacino di Vienna, e con tettonica distensiva più profonda, interessante la crosta ed il mantello superiore, nel settore centrale del Bacino Pannonico.

I dati stratigrafici del sottosuolo ed i dati termici indicano che un modello uniforme di tipo distensivo non può spiegare adeguatamente la subsidenza dei bacini della regione pannonica; gli stessi dati suggeriscono invece che nei bacini interni pannonici la distensione litosferica fu accompagnata dall’afflusso di nuovo calore nel mantello superiore.



07.5 - TETTONICA DELLE ZOLLE ED OROGENESI



  07.5.1 - Relazione tra le zolle. Esempi

La teoria dell’espansione dei fondi oceanici mostra come i continenti si siano mossi sulla faccia della terra attraverso i tempi geologici e che gran parte dei fondi oceanici attuali è stata creata in un lasso di tempo che rappresenta il 5% della durata geologica (200 milioni di anni circa).

 

 

               

                                          Fig.184

 

Come gli scienziati delle altre branche, i geologi hanno cercato di unificare tutte le osservazioni dirette ed indirette per formulare una teoria globale; in questo caso è nata una teoria che ravvisa nella superficie della terra dei caratteri che sono il risultato dell’interazione di una serie di zattere (zolle) di materiale litosferico, che si stanno muovendo attraverso la superficie della terra. L’idea che questa crosta esterna della terra sia fatta di un certo numero di zolle mobili è il semplice concetto unificante utile per spiegare la forma e la distribuzione delle caratteristiche della superficie terrestre (continenti, oceani, dorsali, fosse oceaniche e fasce di terremoti e vulcani).

 

 

           

Fig.185

Dalla sismologia sappiamo che i terremoti sono prodotti quando la parte esterna della terra si frattura in risposta a delle tensioni applicate. Dalla natura delle onde registrate è possibile individuare la direzione nella quale la parte esterna della terra si è mossa per provocare la tensione. Inoltre la distribuzione degli ipocentri dei terremoti avvenuti negli ultimi dieci anni mostra caratteristiche molto interessanti.


Fig. 186

 

Gli ipocentri si ritrovano soprattutto ai margini occidentali ed orientali dell’Oceano Pacifico, lungo le dorsali e lungo le zone orogeniche, le catene quali ad es. quelle alpine e quelle himalayane. In pratica, tutti i terremoti avvenuti in questo periodo sono distribuiti in ben definite fasce chiamate zone sismiche. Analoghe caratteristiche emergono, in modo scientificamente accettabile, dalle registrazioni meno perfette degli ultimi settanta anni e dalle conoscenze piuttosto imprecise degli ultimi duemila anni.  In base alle evidenze sismologiche, possiamo suddividere la superficie della terra in grandi aree, dove raramente avvengono i terremoti, conosciute come zone asismiche, separate da strette fasce sismiche dove i terremoti sono frequenti. Dalla figura collegata che rappresenta la disposizione delle sei zolle principali si possono distinguere a secondo dei caratteri della litosfera quelle interamente continentali o quasi (zolla eurasiatica), quelle oceaniche (zolla pacifica), oppure continentali ed oceaniche (zolla africana ed americana). Alcuni margini di zolle coincidono con i margini oceanici, altri no.


Fig. 187

Come abbiamo visto, i fondi oceanici vengono generati lungo le creste della dorsale oceanica. I dati provenienti dalle fasce ristrette di terremoti ad ipocentro poco profondo, che caratterizzano appunto le dorsali oceaniche, non lasciano dubbi che i segmenti di fondo oceanico sull’altro lato delle creste si stanno muovendo in senso contrario. Questa divaricazione dovrebbe portare un approfondimento ed un allargamento della frattura lungo le dorsali. In verità, invece, lo spazio viene riempito da nuovo materiale portato su dal basso, grazie all’attività vulcanica. Di conseguenza, poiché le zolle oceaniche si spostano in direzione opposta, il nuovo magma è iniettato nella fessura e solidificandosi come basalto, costituisce nuovo fondo oceanico.

 

Se è vero che nuova crosta oceanica è stata generata continuamente negli ultimi 200 Ma. ne consegue che da qualche parte porzioni della crosta terrestre devono essere state consumate. Dove avviene normalmente questa consunzione? Consideriamo la sezione est-ovest tra l’Atlantico meridionale e la dorsale Pacifica, attorno a 20° di latitudine nell’emisfero meridionale: nuovi fondi oceanici vengono generati nella dorsale medioatlantica, cosicché la parte dell’Atlantico meridionale ed il Sud America, ambedue facenti parte della stessa zolla asismica (placca sudamericana) si muovono verso ovest rispetto alla dorsale medioatlantica.

 

 

Fig. 188


 

Fig. 189

 

Nello stesso tempo nuova crosta oceanica  generata nella dorsale pacifica si muove verso est rispetto alla stessa dorsale. Questa crosta oceanica sottoscorre chiaramente sotto la crosta continentale del Sud America per essere riassorbita dal mantello. Quest’ipotesi è suffragata dalla disposizione degli ipocentri di terremoti  che formano un piano sismico inclinato (piano di Benioff) sotto il margine continentale della costa occidentale del Sud America.

 

 

Fig. 190

 

Così, lungo queste profonde fasce sismiche (dette zone di Benioff, zone di subduzione) il fondo oceanico sparisce, venendo consumato quando si immerge giù verso il mantello terrestre. Dove le zolle oceaniche si immergono giù nel mantello, c’è sempre una fossa oceanica (trench) caratterizzata da esiguità di sedimenti.

L’esiguità dei sedimenti nelle fosse può essere spiegata dal modello che vede la zolla oceanica che sottoscorre, lungo la fossa, portando con se una parte delle coperture sedimentarie.


Fig. 191

Il resto dei sedimenti sembra che venga ribaltato contro il margine dell’avanzante zolla continentale (nel nostro caso quella costituita dall’America meridionale e Atlantico meridionale) per essere incorporato dopo essere stato deformato nell’adiacente zona orogenica. L’incontro di due zolle infatti produce deformazioni crostali dovute alla compressione che portano alla formazione di una zona orogenica con numerosi vulcani, vedi le Ande lungo la costa occidentale del Sud America.


Fig.192

Nelle Ande le lave estruse da questi vulcani (andesiti) sono più ricche in silice di un comune basalto, e questo suggerisce che potrebbero essersi formate per parziale fusione della zolla oceanica discendente e della sua copertura sedimentaria, nel momento in cui la zolla ha raggiunto profondità di 150 Km. In questa regione la temperatura generalmente molto più fredda del mantello è alta abbastanza da permettere una parziale fusione della zolla in subduzione. La crosta oceanica discendente sarebbe, quindi, parzialmente rifusa, e in questo processo darebbe luogo ad attività vulcaniche.

Osservando la figura collegata dove i due blocchi di crosta continentale si stanno muovendo insieme, ma in direzioni opposte, il fondo oceanico compreso tra i due blocchi viene progressivamente consumato.


Fig. 193

Quando tutta la crosta oceanica sarà consumata, i due blocchi  a crosta continentale si scontreranno; nessuno dei due può sprofondare verso il mantello a causa delle caratteristiche di  densità (crosta continentale 2.7 g/cm3 rispetto alla crosta oceanica 3 g/cm3) comuni ad ambedue le zolle a crosta continentale. Così ci sarà una collisione. I sedimenti accumulati sul margine continentale saranno compressi, piegati, sollevati a formare una catena di montagne. L’esempio più convincente di questo tipo di processo è rappresentato dalla collisione che si verifica ancora oggi tra il continente Indiano e il resto dell’Asia meridionale e che ha dato luogo alla formazione della zona orogenica dell’Himalaya; la crosta oceanica che separava le due zolle continentali è stata già subdotta nel

passato

Fig. 194



  07.5.2 - Cause del movimento delle zolle

Finora abbiamo descritto i movimenti delle zolle senza tentare di individuare i meccanismi che li causano. E’ estremamente difficile trovare questo meccanismo, perché noi stiamo tentando di cercare qualcosa che non è soltanto fisicamente remoto (profondamente seppellito all’interno della terra), ma qualcosa di remoto in termini di dimensioni e di durata nel tempo, durante il quale questo meccanismo ha funzionato. Abbiamo già detto che sulla base di evidenze sismologiche abbiamo separato la parte esterna della Terra (crosta continentale) dal sottostante mantello (esterno) grazie all’esistenza di una superficie sismica detta discontinuità di Mohorovicic. Nel mantello esterno c’è una zona fra 100 e 300 Km. di profondità dove le onde sismiche si propagano molto più lentamente (Astenosfera).

 

 

Fig. 195

 

Questo strato possiede delle temperature vicino a quelle di fusione e per cui viene calcolato che almeno il 5% di esso potrebbe raggiungere lo stato fuso. Il fluido così formato si troverebbe come fase dispersa dentro lo strato (low velocity layer, LVL) conosciuto come  parte dell’astenosfera o zona di debolezza. Se è vero che il guscio esterno (litosfera = mantello superiore più crosta) si muove rispetto alla parte interna, tale movimento avverrebbe lungo questa zona a bassa velocità. Le zolle di Litosfera appaiono come passeggeri passivi e il meccanismo di trasporto relativo al loro movimento deve essere collocato o nell’astenosfera o in una zona più profonda della Terra. Molti modelli teorici sono stati costituiti per questo modello di trasporto, ma il più semplice appare ancora quello proposto da Holmes negli anni ‘30, che considera la terra come una pentola di acqua che si raffredda; in questa si sviluppano correnti di convezione, le acque più calde risalendo al centro si espandono alla superficie, raffreddano e discendono giù lungo i lati della pentola. Il modello suggerisce che similmente dentro la Terra ci sono grandi correnti di convezione, materiali fluidi, che risalgono dalle dorsali e discendono sotto i margini attivi delle zolle.

Il riconoscimento della fascia dell’astenosfera con caratteristiche diverse dal resto del sottostante mantello ha modificato questo primo modello, in quanto le celle di convezione superando il limite dell’astenosfera, si troverebbero ad attraversare due mezzi a densità assai differente tra loro, separati da una superficie di discontinuità. Infatti, secondo i fisici, la parte del mantello immediatamente sottostante alla astenosfera è troppo rigida per permettere un flusso convettivo del tipo immaginato. Pertanto è stato suggerito che le correnti (celle) di convezione possano collocarsi nel sottile strato dell’astenosfera.

 Il problema è tuttora insoluto ed appare controverso.

 

Riepilogo

1)  La parte esterna della superficie della terra viene divisa in sei o sette zolle più grandi ed in quindici di dimensioni minori.

2)  Le zolle si muovono come corpi rigidi e sono deformate soltanto laddove i loro movimenti relativi causano subduzione o collisione cioè soprattutto ai margini.

3)  Le zolle oceaniche vengono consumate nelle fosse oceaniche, immergendosi giù nel mantello dove alla fine vengono rifusi per essere mescolati ancora con il mantello, da cui già provenivano.

4)  La consumazione è compensata dalla creazione di nuovo materiale lungo le dorsali oceaniche, il processo è continuo ed analogo in molti modi alla cinghia di trasmissione di una produzione industriale.